Intervista-freewheeling di Andrea Nurcis con Enrico Corte per la sezione Arte e Cultura del sito Wasp.com
Enrico Corte: l’arte come privilegio della libertà
2019
Enrico Corte è un artista che ha adoperato diversi mezzi espressivi, sia tradizionali che tecnologici. La caratteristica di molti suoi lavori è che le due “tipologie” di media da lui impiegate – la manualità delle tecniche tradizionali e gli sviluppi della tecnologia digitale – spesso si contaminano senza soluzione di continuità. Artista “promiscuo” per definizione, fornito di un’attitudine libera e aperta ai molteplici stimoli estetici e culturali della realtà di oggi – ma portatore anche di uno spirito analitico fortemente critico e caustico nei confronti delle problematiche del reale – è il giusto interlocutore per discutere dell’avvento della sensibilità digitale all’interno dell’arte contemporanea negli ultimi decenni, inclusa l’importanza per l’artista di utilizzare la tecnologia 3D in chiave creativa e trasgressiva dalle consuetudini.
– Quando hai iniziato a interessarti alle tecnologie digitali per produrre arte, e perché?
Qui parliamo di archeologia, più che di tecnologia: vedi come a volte la prospettiva temporale si distorce. Puoi scrivere che i primi approcci sono stati quand’ero ventenne, o poco più. Verso la metà degli anni Ottanta io e altri artisti tra cui anche te [Andrea Nurcis, ndr] fummo incaricati dalla Rai di realizzare una serie di immagini grafiche create al computer da utilizzare come “scenografie virtuali” per una trasmissione culturale intitolata Maestrale, in onda dalla sede Rai della Sardegna. In quegli anni infatti vivevo ancora a Cagliari. Mi fu offerto di sperimentare con i computer in dotazione presso uno studio grafico di alto livello, attrezzato con la più avanzata tecnologia dell’epoca in fatto di hardware e software, e dove produssi appunto una dozzina circa di tavole grafiche con l’aiuto di un tecnico che mi insegnò i rudimenti dell’uso del computer, facilitandomi l’apprendimento di un linguaggio nuovo.
– Cosa erano esattamente le “scenografie virtuali” che creasti in quella occasione?
Erano tavole grafiche che furono usate come sfondi nelle parti della trasmissione Maestrale in cui venivano intervistati vari personaggi della cultura. Fu usata la tecnica del chroma key, molto in voga in televisione in quegli anni: la persona intervistata veniva scontornata e, in post-produzione, sovrapposta all’immagine digitale da me creata. Quest’immagine fungeva appunto da sfondo, da scenografia, riempiendo l’intero perimetro dello schermo televisivo alle spalle dell’intervistato o dell’intervistata.
– Ovviamente stiamo parlando ancora di tecnologia 2D, non 3D. Cosa ti interessava in quel tipo di strumenti?
Sì, parliamo di immagini grafiche bidimensionali realizzate al computer, eppure quello che più mi interessava fin dai primi approcci era proprio la possibilità di dare l’illusione di una profondità, di una tridimensionalità. Riuscivo a far questo lavorando sulla dimensione dei pixel, cioè creando immagini – per esempio l’immagine di un “vortice” di pixel viola su un fondo scuro – composte in modo che i pixel più grandi dessero l’idea di essere in primo piano rispetto a quelli via via sempre più piccoli: così il vortice acquistava una sorta di profondità. Era abbastanza evidente, fin dai primi passi nella tecnologia digitale, che le possibilità future erano immense e che si sarebbe andato verso la creazione di una realtà virtuale che sarebbe stata indistinguibile da quella reale, non solo riguardo alla percezione plastica e prospettica ma anche per le percezioni tattili. Insomma, si iniziava a pensare in 3D anche se si lavorava ancora in 2D.
– Negli anni ’80 hai creato opere al computer anche al di fuori dell’esperienza della trasmissione Maestrale?
Sì certo, ho continuato a avere un rapporto di curiosità e sperimentazione con i computer mantenendo una frequentazione con lo studio grafico in cui avevo lavorato per Maestrale e producendovi opere man mano che le attrezzature dello studio venivano aggiornate e rinnovate. Per esempio l’opera intitolata C(L)lep(S)-Hy(D)ra, del 1989, in cui comunque oltre alla stampa digitale convergono pittura acrilica e serigrafia: anche in quell’opera c’è il tentativo di raggiungere la percezione della tridimensionalità, della forma prospettica o dell’elemento aggettante, che si proietta fuori dal quadro, come di fatto accadeva in altre mie opere create senza l’uso del computer in cui elementi plastici o scultorei protrudevano oltre la superficie dipinta del quadro. Alla fine mi rendo conto di essere stato un privilegiato, di avere avuto da subito accesso gratuito a possibilità enormi e a mezzi digitali costosissimi per l’epoca, e addirittura aver usufruito di tecnici pagati dalla Rai per insegnarmi i trucchi del mestiere. E di avere persino guadagnato un bel po’ di soldi da tutto ciò.
– Mi sembra molto interessante il tuo accorpare nella stessa opera l’elaborazione di immagini al computer e altri elementi o “ritocchi” realizzati con varie tecniche più tradizionali.
Mah, già in quegli anni pensavo fosse incongrua questa divisione tra tecniche tradizionali e non tradizionali; ancora di più lo è al giorno d’oggi, visto che ormai esiste una “tradizione consolidata” dell’uso del computer per creare arte. Quando nel mio lavoro è presente l’uso del digitale, questo sarà sempre inteso come una componente, una parte di una sperimentazione di tecniche più complesse. Per esempio mi viene in mente l’opera Ritaglio-Ritratto (Hallu-Kinetic): anche quello è un lavoro della fine degli anni Ottanta in cui convivono l’elaborazione digitale (ossia lo schema geometrico realizzato al computer) con la verniciatura a spruzzo e il collage (cioè il ritaglio-ritratto creato manualmente con forbici e carta velina). È una questione di “stratificazione”, che è poi un atteggiamento che riflette i processi di formazione del pensiero nel cervello. Ho idea che occorrerebbe troppo tempo per approfondire anche l’argomento “neurale”, quindi andiamo avanti restando in carreggiata sul tema del 3D.
– In quel momento degli anni Ottanta c’erano altri artisti in Italia che lavoravano professionalmente con quel tipo di strumenti tecnologici?
Qualcuno c’era, ma più nel campo generico dei creativi che degli artisti contemporanei veri e propri. Era comunque un frangente storico in cui i confini tra i due ambiti stavano dissolvendosi o mescolandosi. Tra il 1981 e il 1984 ci fu una trasmissione televisiva di grande successo, Mister Fantasy, e dall’84 in poi l’avvento dell’emittente televisiva Videomusic: entrambe erano focalizzate sulla musica pop e i videoclip, e così le grafiche digitali e le animazioni al computer vennero divulgate al grande pubblico, entrando nel gusto corrente e influenzando illustratori, fumettisti, artisti. In particolare ricordo un gruppo di creativi, i Giovanotti Mondani Meccanici, attivi dai primi anni Ottanta tra fumetto, videoclip e installazioni artistiche, coi quali feci una mostra nel 1986 ma in cui guarda caso scelsi di esporre alcune sculture e non opere realizzate al computer. Poi ricordo le grafiche delle copertine, le immagini pubblicitarie e i video musicali dei Residents – una band californiana che seguivo – le quali andavano spostandosi sempre più verso l’approccio “computerizzato” (oggi peraltro tutto gli apparati visivi dei Residents – cover graphics, costumi, scenografie, film, video, ecc. – sono prossimi a finire al MoMA di New York, e io e te questo l’avevamo già capito quarant’anni prima). Osservavo tutti questi cambiamenti come si osserva qualsiasi altro avvenimento nel mondo; il mio percorso attraversava naturalmente queste (e altre) nuove suggestioni della tecnologia senza esserne particolarmente “travolto” come artista: nessuna mia “conversione sulla via di Damasco”.
– Ti definiresti, o ti sei mai definito, un “artista digitale”? Viste le date, si potrebbe dire che tu sia tra i pionieri italiani di questa tendenza…
Bah, questa definizione non è mai stata usata né da me né, spero, da altri per definire il mio lavoro. L’uso del computer o delle tecnologie digitali è stata solo una delle tante sperimentazioni che mi son permesso il lusso di fare, in totale libertà e autonomia rispetto a qualsiasi inquadramento in gruppi, tendenze, mode, movimenti artistici. Già prima dell’uso del computer mi servivo di strumenti non tradizionali rispetto alle tecniche artistiche classiche, come ad esempio la verniciatura con compressore e pistola a spruzzo, per cui quando a Roma o Milano vedevano i miei lavori qualcuno parlava di “artista tecnologico” – la qual cosa mi faceva piuttosto ridere perché evidenziava quanto fossero schematici i critici e galleristi, e in generale quanto fossero provinciali gli ambienti artistici di tendenza delle cosiddette “capitali dell’arte” italiane.
– Nel tuo approccio al computer per produrre le tue immagini, in che modo sei passato dal 2D ad affrontare le tecnologie più avanzate del 3D?
Per naturale curiosità, continuando ad approfondire negli anni l’approccio iniziale al computer, e passando dai rudimentali software dei primi anni ’80 a più sofisticati programmi di modellazione nel decennio successivo – per esempio Softimage o Cinema 4D. Oppure penso a ZBrush, per il quale si parlava di 2,5D e poi di 3D vero e proprio. Ho sperimentato anche con Maya e Rhino. Contemporaneamente seguivo lo sviluppo della tecnologia delle stampanti 3D, a partire dai primi modelli che usavano la stereolitografia, che risale alla seconda metà degli anni ’80. Ma solo alla fine degli anni ’90 ho avuto la possibilità di utilizzare le stampanti 3D.
– Quali sono stati i tuoi primi lavori digitali in cui puoi dire che l’approccio alla tecnologia 3D abbia prodotto risultati avanzati e complessi?
Mah, non penso in termini di “risultati avanzati e complessi”, anzi non penso in termini di risultati tout-court. La vita è sperimentazione continua; è logico e giusto che ogni presunto risultato debba anche essere una sorta di fallimento che, in quanto tale, ti spinga a spostarti oltre, a non pascersi sui risultati della tua “bravura”. È il noto “fallisci ancora, fallisci meglio” di uno dei profeti della nostra epoca, Beckett. Inoltre, in arte non c’è “superamento”, altrimenti non potremmo apprezzare l’arte del passato in quanto antiquata e superata, appunto. Credo che qui si stia entrando in un cortocircuito tra i concetti di arte e tecnologia, intesa come progresso tecnologico; ma penso che ciò rappresenti una tematica che esula dagli obbiettivi di questa nostra chiacchierata. Forse può aver creato un malinteso il fatto che io abbia parlato di passaggio a più sofisticati programmi di modellazione negli anni ’90; comunque capisco il senso della tua domanda e allora accetto la semplificazione del discorso implicita in queste righe e ti rispondo che, per esempio, c’è stata la serie di opere Fluororama, realizzata verso la fine degli anni ’90.
– Analizziamo più approfonditamente di questa serie di opere, allora. Si trattava di opere esclusivamente digitali, del tutto realizzate al computer con programmi 3D?
Va bene, analizziamo pure. Si trattava di un progetto multimediale in cui l’uso del 3D ha una parte consistente, ma non esaustiva. Nel 1987 ero venuto a conoscenza delle ricerche di un giornalista australiano sulla cosiddetta fluorizzazione, focalizzate su una teoria in apparenza “complottista” – ma in seguito rivelatasi fondata su basi di una certa concretezza – secondo la quale la somministrazione di fluoro nell’organismo umano mediante l’acqua potabile, o la sua assunzione giornaliera tramite altri mezzi (per esempio dentifricio al fluoro) avrebbe un effetto dannoso sulla salute fisica e mentale. In pratica, la fluorizzazione provocherebbe, oltre alla sterilità, anche una certa inibizione della volontà, della capacità di giudizio critico, e quindi sarebbe utilizzata subdolamente da potere politico dominante per sottomettere il pensiero critico delle masse, a partire addirittura dal periodo nazista. Questa storia mi diede l’idea per creare alcune opere fotografiche incentrate sulle istruzioni per il corretto uso del dentifricio e spazzolino, e ispirate alle immagini pubblicitarie per bambini. Si trattava di una serie di sette fotografie in cui modellini fatti a mano di spazzolini da denti e pasta dentifricia acquisivano fattezze antropomorfe e fumettistiche mettendo in scena sketch umoristici per spiegare ai piccoli come e quando lavarsi i denti nel giusto modo: ovviamente il sottotesto “cinico” del fluoro come inibente della volontà era presente in tutte queste immagini, ma in parte nascosto dalla voluta leziosità generale dello stile didattico di rappresentazione che avevo scelto. Cercai di realizzare le fotografie di questi personaggi, di queste sculturine che erano modellini antropomorfi di spazzolini da denti e tubetti di dentifricio, usando una tecnica stereoscopica: scattando doppie foto della stessa scena con una minima variazione di inquadratura che permettesse una maggiore profondità di campo una volta che le doppie foto fossero viste attraverso un visore tipo View-Master [un oggetto vintage di moda negli anni ’50 e ’60, ndr]. Diversi artisti del passato si sono cimentati in questo gioco visivo stereoscopico, per esempio realizzando doppie immagini da vedere attraverso occhialini bicromatici o roba del genere: mi vengono in mente certi quadri dell’ultimo Dalì, e altri artisti ancora. Queste fotografie stereoscopiche, realizzate nel 1988, costituivano appunto la prima versione del Fluororama.
– Interessante, ma qui non c’entra l’uso della modellazione 3D…
Non ancora. I risultati che ottenni nell’88 erano divertenti, ma ancora non era entrata in campo la tecnologia 3D; fu solo negli anni ’90 che decisi di fare una versione digitale delle immagini del Fluororama, ricreando tutte le sette scenette con spazzolini e dentifricio attraverso l’uso di programmi di modellazione 3D: questo mi permise un maggiore controllo sull’effetto stereoscopico che volevo ottenere perché potevo variare con più precisione l’angolo dell’inquadratura della scenetta e ricavarne doppie immagini con una leggera variazione del punto di vista tra l’una e l’altra, perfette per il visore stereoscopico a cui erano destinate. Realizzai anche il cosiddetto reel, cioè il dischetto di cartone con le sette coppie di fotografie stereoscopiche in miniatura stampate su acetato trasparente, da inserire nel visore View-Master. La differenza rispetto a prima è che in questa versione digitale del Fluororama le miniature fotografiche erano tratte dai render delle immagini modellate in 3D e non fotografie di oggetti veri e propri, come erano invece quelle del Fluororama prima versione. Come vedi, l’uso della tecnologia 3D non è mai fine a sé stesso ma va inquadrato in operazioni artistiche più articolate di tipo multimediale e multidisciplinare in cui la manualità, la cura artigianale dei dettagli e persino rudimentali ma affascinanti tecnologie vintage usate in modo ironico non sono aspetti secondari e anzi hanno lo stesso peso e rilevanza.
– Puoi farci qualche altro esempio di progetti realizzati anche con programmi 3D, oltre al Fluororama?
L’uso di software 3D è presente anche nelle video-opere che io e te abbiamo realizzato a quattro mani a partire dal 1995. Nel digifilm No Light, ad esempio, oltre a un lavoro di allestimento scenografico tradizionale, e a una costruzione digitale in chroma key del personaggio del Demonietto, vi sono anche dei piccoli inserti di animazione in 3D. Mi riferisco per esempio agli occhietti mobili dell’ombra demoniaca che appare proiettata sul muro della fogna in cui vive il personaggio dell’Eremita, nella scena sotto la pioggia. All’interno delle orbite dell’ombra demoniaca, di questa enorme faccia minacciosa, si vedono due piccole pupille che cambiano forma, che si spostano, che osservano malignamente l’Eremita: quelle due pupille non sono bidimensionali ma si tratta di due sfere realizzate in 3D che fluttuano, diventano ovali, ingrandiscono e diminuiscono, e così via per tutta la scena. Quello e altri piccoli inserti in 3D in No Light li abbiamo realizzati in uno studio di Roma (non ricordo con che software, forse Softimage) e inseriti in postproduzione all’ultimo momento proprio perché volevamo sperimentare con i nuovi software 3D, anche se No Light era già pieno di effetti, trovate sceniche tradizionali o costruzioni 2D in chroma key da rendere superfluo qualsiasi ulteriore intervento. Ma a quel punto a noi interessava proprio scoprire nuovi territori: la libertà di poter sperimentare continuamente, più che il risultato finale. L’arte è questo: il privilegio della libertà.
– Visto che non ci sono più continenti da scoprire, il pionierismo tecnologico ha preso il posto del pionierismo geografico?
No Light, il digifilm girato e montato tra il 1996 e il ’97, e il precedente mini-video Drinking No Light, che risale al ’95 e fu realizzato come sigletta pubblicitaria d’artista per l’emittente MTV (fu selezionato assieme a tanti altri video di artisti internazionali tra cui, a livello italiano, quello di Luigi Ontani), sono stati in assoluto i primi video digitali d’artista realizzati in Italia. Girammo i video con il camcorder VX1000 della Sony, che al tempo prometteva mirabilie e che fu messo in commercio proprio nel 1995; fummo i primi artisti in Italia a comprare e usare quel tipo di nuova tecnologia.
– Be’, questo potrebbe sembrare un po’ autoelogiativo, un po’ arrogante… non è detto che sia un pregio “arrivare primi” a mettere le mani su una certa tecnologia, o comunque che chi arrivi primo sia anche automaticamente il migliore. Inoltre, la definizione della VX1000 poteva sembrare strabiliante all’epoca, ma oggi qualsiasi obbiettivo di un telefonino permetterebbe risultati assai superiori per quanto riguarda il video. Oggi i video digitali fatti con i primi camcorder “prosumer” di quegli anni sbalordiscono semmai per la loro scarsa qualità visiva.
Poche storie… Se mi fai una domanda io rispondo con dei contenuti verificabili, prima di tutto sul piano dell’approccio storico al mezzo tecnico: è proprio lo studio della storia dell’arte che dovrebbe imporci questa sacrosanta abitudine. Poi lascio al pubblico la facoltà di verificare i risultati. Che c’entra l’arroganza? Sul piano del “superamento” tecnologico, ne abbiamo parlato poco prima e non mi ripeto. Ci mancherebbe altro che al giorno d’oggi qualsiasi possessore di uno smartphone non abbia accesso a possibilità di gran lunga superiori a quelle di un quarto di secolo fa; quel che conta veramente è il modo in cui l’artista si è spinto ai limiti delle possibilità, ha stravolto sul piano espressivo i mezzi offerti dal mercato del suo tempo, rispetto a chi invece li ha usati in modo più convenzionale. Un’opera d’arte ha sempre una posizione di accordo o disaccordo con i rapporti di produzione della propria epoca, e in base a questo sarà da considerarsi rivoluzionaria o conservatrice. Allora, il discorso molto semplicemente impone una considerazione, che non è mia ma è presa da altri: No Light è un esempio di video-opera del tutto a sé stante nel panorama delle produzioni d’artista contemporanee. Come operazione di amalgama di molteplici linguaggi visivi, di rapporto tra sofisticatezza della colonna sonora originale e immagine in movimento, di interscambio tra scenografie pittoriche, costumi-scultura e manipolazione digitale dei dati fisici degli artisti/personaggi, di matrimonio tra “trucchi” cinematografici artigianali e sperimentazione degli ultimi ritrovati del digitale 2D e 3D, di sfida e sforzo (auto)produttivo durato due anni, di trasmutazione del materiale grafico pubblicitario del video in opera d’arte autonoma con corollario infinito di gadgets-sculture che ridefiniscono l’estetica del prodotto come in un gioco di specchi e rimandi concettuali, e soprattutto di trasposizione, trasfigurazione e destrutturazione delle figure degli stessi artisti (e della storia del loro rapporto) all’interno della narrazione, No Light non ha referenti accostabili né tecnicamente, né sul piano dei contenuti o degli esiti visivi – né prima della sua realizzazione, né soprattutto dopo. A distanza di ventitré anni nessuno ha lavorato in una direzione lontanamente accostabile al progetto No Light, né in Italia né all’estero. Certamente superato, sul piano della resa digitale del girato, dagli sviluppi della tecnologia di oggi; impareggiabile su tutti gli altri piani. Per alcuni questa “anomalia” stilistica, questa autonomia, questo scollamento, questa iato col resto delle produzioni artistiche del tempo, è un limite, una velleità, un segno di isolamento, un eccesso negativo di personalità, un fastidio; per altri un grande pregio. In quanto co-autore dell’opera io mi tengo fuori dai giudizi, chiaro. Ma, se mi fai una domanda, non mi astengo dal descrivere i procedimenti storici, tecnici e concettuali che stanno dietro alla sua realizzazione, come appunto ho fatto. Detto questo, passiamo ad altro.
– E oltre ai video, in che misura i programmi 3D sono confluiti nelle altre tue opere?
Ho usato la modellazione 3D anche per la creazione delle cosiddette promo pictures: immagini promozionali che vanno viste come opere a sé stanti – anzi come un genere a sé.
– Facci capire un po’ meglio… erano opere a sé stanti rispetto a cosa, e che intendi per “un genere a sé”?
Mi riferisco, per esempio, alla serie di sculture intitolata L’Astrazione del Vuoto, o a quella coeva intitolata Devotees and Wannabes. Siamo negli anni 1994-97; entrambe le serie consistono in sculture metalliche di dimensioni medio-piccole, a volte con inserti plastici in materiali vari tra cui fotoceramica, resina sintetica, vetro, gomma siliconica, e altro. Realizzate anche queste con l’aiuto della modellazione e stampa 3D, sono pensate per la produzione in serie: sono cioè dei multipli. Da queste serie di sculture ho tratto diverse immagini promozionali che mostrano le medesime sculture inserite in ambientazioni di vario tipo che ne esaltano le caratteristiche materiali grazie a giochi di luce o uso di scenografie simboliche e suggestive per l’occhio. Le promo pictures nascono con lo scopo di diffondere l’immagine delle sculture anche in direzione di un tipo di pubblico non avvezzo a frequentare il mondo dell’arte. Di fatto, nel realizzare queste ambientazioni – o tramite la fotografia, o tramite appunto la modellazione 3D, o anche attraverso la combinazione di foto e 3D – ho messo altrettanto impegno che nel creare le sculture vere e proprie, e l’impatto visivo che ne risulta va ben oltre la semplice, banale “reclame” pubblicitaria. Le promo pictures usano le immagini delle sculture e le ricontestualizzano in ambienti fotografici o in ambientazioni create in 3D che sono opere d’arte a sé stanti, curate nei minimi dettagli e indipendenti dalle sculture che sono inglobate al loro interno. Inoltre, ho usato le promo pictures anche per ricreare mie opere del passato che per un motivo o per l’altro non hanno goduto dell’attenzione che meritavano: rimodellandole in 3D e collocandole in spazi virtuali atti a magnificarne le forme e i materiali ho donato loro nuovo “smalto”. Non sono stato né il primo né l’ultimo artista che ha lavorato al confine tra arte e pubblicità; nel mio caso, cioè nel contesto generale del mio lavoro, questo “territorio intermedio” delle promo pictures andrebbe visto come un genere d’arte a sé, proprio perché è portatore di caratteristiche del tutto peculiari. Come dire: c’è la pittura; poi c’è la scultura, che è un’altra cosa; poi la serigrafia, che è un altro discorso; poi l’incisione, che è ancora altro; poi la video arte; poi le promo pictures, eccetera. Ogni tecnica ha il suo approccio concettuale, anche se a volte, in ambito realizzativo, l’artista può scegliere di combinarle tra di loro. Spero che il concetto sia ora chiaro.
– Quali sono i tuoi prossimi progetti e in che direzione hai intenzione di portare il tuo approccio alla tecnologia 3D?
Adesso mi trovo ancora una volta nella mia vita in una posizione privilegiata, perché dopo aver abbandonato Roma al suo destino ed aver trasferito il mio studio nella campagna romagnola mi trovo a breve distanza dalla WASP – praticamente a dieci minuti di bicicletta. Il rapporto di reciproca stima con Massimo Moretti e la mia ammirazione per la sua visione umanistica, oltre alla sua attitudine creativa e imprenditoriale e alla sua proiezione nel futuro anche ecologico dell’umanità, stanno facendo nascere nuovi progetti di opere in collaborazione. Le possibilità offerte dalla tecnologia delle attuali stampanti 3D sono meravigliose e ammalianti: parliamo di stampanti alte oltre dodici metri, e molte altre “machines désirantes” – e in nessun altro posto come in WASP un(’)artista ha la possibilità di realizzarle in pieno spirito di cooperazione e libertà. Perché il discorso è sempre quello: non è la sofisticatezza dei mezzi tecnologici che conta, ma la mentalità illuminata di chi li detiene.