EXCERPTⒶ Explained
Enrico Corte in conversazione con Annamaria Janin
Dicembre 2017
Annamaria Janin è stata la prima critica d’arte a interessarsi del lavoro mio e di Andrea Nurcis. Conoscendoci da quando eravamo dei ragazzini bazzicanti la scena dell’arte contemporanea, fin dalle nostre prime mostre prese l’iniziativa di intervistarci. La prima volta fu nel giugno 1981, quando partecipammo alla mostra di gruppo Immagini Sonore alla Galleria comunale d’arte contemporanea di Cagliari: in quell’occasione selezionò un ristretto nucleo di artisti da intervistare sulle pagine culturali del quotidiano L’Unione Sarda, una delle testate con cui abitualmente collaborava. Avevamo appena 18 e 19 anni, eppure ci mise sullo stesso piano di altri artisti di maggiore esperienza. In seguito, nel settembre 1981, avendo saputo del nostro progetto di installazione urbana Rarità Botaniche all’Orto botanico di Cagliari, gli dedicò una trasmissione radiofonica per la sede regionale Rai della Sardegna, intervistandomi in diretta. Qualche settimana dopo, a seguito dell’inaugurazione delle Rarità Botaniche, scrisse sulla nostra installazione multimediale un articolo su L’Unione Sarda in cui ci metteva sullo stesso piano di Maria Lai e della sua celebre installazione-evento Legarsi alla Montagna, avvenuta nello stesso giro di giorni a Ulassai. All’epoca Annamaria era l’unica critica a scrivere non solo del lavoro di giovanissimi artisti come me e Andrea, ma anche di artiste come Maria Lai che pure aveva già una lunga attività alle spalle: non era ageist, come si direbbe oggi. Genovese di nascita e formazione, ma cagliaritana d’adozione e d’affezione, Annamaria è stata critica d’arte, insegnante, scrittrice, conduttrice radiofonica, organizzatrice di mostre in Italia e all’estero, poeta visiva, attivista politica progressista e femminista; artefice tra l’altro di campagne di finanziamento di organi di controinformazione come Il Manifesto. E, se vogliamo, fu anche attrice: nel 1985 Annamaria accettò di comparire, in via amichevole, in una breve sequenza del mio film Spavento. Nonostante le sue molteplici attività a partire dai turbolenti anni Settanta – e attraversando indenne sia l’edonismo e il riflusso del privato degli Ottanta che il berlusconismo dei Novanta, per arrivare infine alle mostre, i libri e le altre sue iniziative dei primi decenni del nuovo secolo – la figura di Annamaria si trova oggi in un cono d’ombra. Pur essendo stata da sempre attenta a un uso accorto dei mass media tecnologici, ma appartenente a una generazione pre-internet e pre-social, di tutta la sua frenetica attività culturale ci rimangono non molte tracce. I suoi libri non sono più stati ristampati; i cataloghi d’arte e gli articoli – che rappresentano il suo pensiero più acuto e le sue battaglie culturali – non sono stati digitalizzati e non si trovano in rete. L’intervista EXCERPTⒶ Explained, realizzata all’indomani dell’inaugurazione della doppia retrospettiva mia e di Andrea al museo Palazzo Collicola Arti Visive di Spoleto, è rimasta finora inedita per il sopraggiungere della malattia e poi della morte della critica d’arte.
–EC
Annamaria Janin – Il 16 dicembre 2017 avete inaugurato una doppia mostra retrospettiva intitolata EXCERPTⒶ, curata da Gianluca Marziani. La mostra occupa tre piani del museo Palazzo Collicola Arti Visive, ossia il museo ufficiale d’arte contemporanea dell’Umbria: un bellissimo edificio storico che contiene anche l’importante collezione Carandente e di cui Marziani è il direttore, situato nel centro di una città con una lunga tradizione d’arte e di cultura internazionale come Spoleto. Come è stato possibile gestire una retrospettiva “in comune” per due artisti come voi che operano separatamente ma al tempo stesso, di tanto in tanto, scelgono di realizzare progetti a quattro mani?
Enrico Corte – Niente di più facile che gestire in comune una doppia retrospettiva per chi si conosca da così tanto tempo. La superficie espositiva di Palazzo Collicola è talmente ampia e articolata da permetterci di trovare lo spazio necessario ad allestire sia stanze personali sia ambienti in cui la predominanza del lavoro dell’uno sia “contaminata” dalla presenza di un piccolo segno dell’altro, come nel simbolo dello Yin-Yang. A questo si alternavano stanze e corridoi in cui erano presentati i progetti realizzati a quattro mani. Abbiamo evitato di creare “blocchi” di lavori individuali troppo concentrati in quanto la struttura del Palazzo è di natura labirintica e avvolgente, e ciò ci ha concesso, con un minimo di studio dei possibili percorsi, di “mescolare le carte” in modo equilibrato senza tralasciare l’elemento sorpresa nei confronti del pubblico, l’improvvisa epifania di un’opera in uno spazio insospettabile. Marziani si è dimostrato completamente disponibile ad accettare le nostre idee sull’allestimento, apportandovi solo delle piccole modifiche che si sono rivelate grandi migliorie. Ammetto che la fruizione della mostra non sia semplicissima e lineare, e che possa creare qualche disorientamento, ma è giusto che sia così: gli artisti non sono entertainers.
AJ – Avete affrontato problemi pratici per allestire una mostra così impegnativa?
EC – I problemi non mancano mai. Alcune opere erano talmente grandi da non passare per le porte d’ingresso; come in un mondo perfetto il problema è stato subito risolto perché si è chiamata una squadra di operai che ha rimosso le preziose ante delle porte lignee settecentesche permettendo ai quadri di entrare nei locali del piano mostre. Così come quando c’è stato bisogno di installare un quadro a parete in modo che fosse “fuso” col muro senza soluzione di continuità, si è chiamato un imbianchino che ha provveduto a ridipingere l’intera parete per uniformare il punto di giuntura tra quadro e muro. Si può dire che sotto la direzione di Marziani l’organizzazione del museo sia stata impeccabile.
AJ – L’idea di una doppia retrospettiva richiama alla mente il concetto di duo artistico, di coppia di artisti come se ne vedono tante in giro ultimamente.
EC – Questa è una delle cose più difficili da far intendere, e non tanto al pubblico generico dell’arte quanto ai cosiddetti addetti ai lavori, agli esperti del settore. Le ultime generazioni di critici, ad esempio, sembrano avere idee assai ristrette e convenzionali riguardo a come un artista debba organizzare il proprio lavoro: ritengono che o si lavora individualmente come entità egocentriche o si è un duo, una “coppia di artisti” spesso uniti anche nella vita attraverso il matrimonio; poi vengono considerati anche i “collettivi di artisti” che però sono spesso effimeri e non portano il nome dei singoli operatori ma quello del gruppo. Questa convenzionalità a noi sta stretta come tutti i binarismi di genere, e abbiamo cercato di suggerire la possibilità di un punto di vista obliquo, di una terza via: siamo artisti individuali che periodicamente, a partire dal 1981 e per tutto l’arco della loro vita, hanno scelto di collaborare tra loro in base a precisi progetti, e anche aprendosi a collaborazioni con terze figure che non devono necessariamente essere operatori professionali del mondo dell’arte. Sembra strano, ma in qualche modo questa opzione, questa piccola mossa laterale, intacca le strategie consuete del mercato dell’arte e persino il culto della personalità che si vuole creare attorno alla figura dell’artista. Di recente uno pseudo-critico con cui a fatica ho dovuto dialogare mostrava una forte ottusità nei confronti di un rapporto di palese anche se intermittente interscambio come quello che io e Andrea abbiamo mantenuto negli anni: il suo atteggiamento era tipo “ma siete un duo o non siete un duo?? Ma allora siete un duo che non è un duo!”. Ma d’altra parte il mestiere della critica, inteso proprio come autonomia di pensiero basato su una vastità di conoscenze senza paraocchi, si è talmente deteriorato, e certi personaggi dentro riviste e giornali dipendono ormai da tanti di quei miserandi equilibri politici e di potere, che persino il dettaglio dell’inserimento di una A cerchiata nel titolo di una mostra crea sgomento e perplessità. Inoltre, l’idea di arte come network tra vari operatori della cultura era la base del nostro progetto Orestecinema presentato all’interno del padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 1999 su invito di Harald Szeemann, eppure ricordo quanto fu complicato farne intendere il senso alla critica del tempo, e una delle principali riviste d’arte alluse a noi come di artisti “che si uniscono per contare”, cioè poneva il nostro proposito in un’ottica di mera conquista del potere. Anche il fatto che sul catalogo ufficiale della Biennale avessimo scelto di riportare solo i nostri nomi e nessuna foto di nostre opere – non era un progetto sulle nostre individualità – appariva agli occhi della critica come qualcosa di sospetto, e i mercanti non potevano basarsi sul prestigioso catalogone per “piazzare bene” un nostro quadro grazie all’immagine riprodotta.
AJ – Ho notato che sia nei manifesti della mostra che nel catalogo stampato dal museo sono riportati una serie di nomi a cui la mostra stessa sarebbe dedicata. Chi sono queste persone?
EC – I nomi appartengono alle persone che si sono più vicine e care in questo periodo. Puoi intenderle, se vuoi, come la nostra famiglia allargata.
AJ – Una delle stanze della mostra è dedicata a una proiezione video a parete in cui veniva illustrata una delle vostre prime esperienze di mostra pubblica, realizzata in collaborazione: l’installazione urbana del 1981 Rarità Botaniche. Nel video sono illustrate anche tutte le altre opere che nel corso dei decenni a venire avete realizzato a quattro mani per “celebrare” la realizzazione delle Rarità Botaniche. Perché ritenete che Rarità Botaniche vada celebrata in questo modo, a cadenze regolari?
EC – Perché ci permette di fare altre opere che ne mantengano vivo il messaggio, che nel caso delle Rarità Botaniche è espresso molto chiaramente nell’incipit del video: un’opera sull’amicizia (e sull’adolescenza): su come questa inizia. E sulla differenza tra la croce e la delizia, e tra crescita e escrescenza. Non è forse meraviglioso che un’amicizia duri per sempre? Sai, l’amicizia è anche capace di essere radicalmente sovversiva – e non tanto quando attacchi un avversario, ma quando rimane fedele a sé stessa.
AJ – Nel vostro caso parlerei di qualcosa di più di una semplice amicizia…
EC – Ha! Questo tema magari lo esplicheremo nella nostra prossima intervista. L’amicizia non è mai semplice comunque.
AJ – Ma oltre a Rarità Botaniche, anche altri vostri progetti a quattro mani come la video-opera (o digifilm, come voi lo chiamate) No Light sono i soggetti di un certo numero di celebrazioni periodiche attraverso la realizzazione nel tempo di opere derivate dal progetto originale. Cosa intendete “celebrare” esattamente con questi vari progetti concettuali basati su ricorrenze decennali, quindicennali, ventennali, ecc.?
EC – Celebriamo anche il fatto che progetti come Rarità Botaniche e No Light, col passare del tempo, continuano a non avere uguali nel panorama delle installazioni urbane o della videoarte. All’epoca, non assomigliavano a niente che fosse stato fatto prima nel campo della sperimentazione contemporanea, e di decennio in decennio continuano a non assomigliare a nient’altro, continuano a celebrare la loro totale autonomia stilistica che permane nel tempo, rigenerandosi di continuo attraverso una miriade di progetti laterali che ne attestano l’inventiva e la generosità di spunti originale.
AJ – In che modo l’ironia entra a far parte di questa serie di celebrazioni periodiche?
EC – L’ironia, come la malizia o il peccato, spesso è negli occhi di chi guarda. Può darsi che nelle opere vi sia anche questa componente se la si intende come valore aggiunto che doni ai lavori una sfumatura in più – per esempio come ammiccamento culturale che sia tanto sottile da essere inteso da chi guarda con un attimo di ritardo e come una piccola sorpresa piacevole – ma resta il fatto che un artista non è un cabarettista o un disegnatore satirico e quindi non è necessario che l’opera d’arte abbia come fulcro principale un’asserzione ironica per acquistare spessore. Non occorre far scattare un sorrisetto di compiacimento nel pubblico. Vi sono inoltre tanti tipi di ironia: un’ironia amara, una di tipo giocoso, una di tipo polemico, una costruttiva, un’altra distruttiva… e queste tipologie sono spesso contrastanti tra di loro: non credo che l’ironia sia una categoria assoluta da utilizzarsi per definire il senso di un’opera. Penso che vada considerato un altro aspetto, invece: ogni progetto realizzato in un’ottica “celebrativa” presenta innanzitutto una attenzione ai dettagli della fattura dell’opera, che tende all’assoluta perfezione formale; più che l’ironia, ne risulta che l’elemento fondamentale sia l’amore per il manufatto artistico – che è il risultato di concentrazione, fatica e applicazione maniacale – e conseguentemente il dono di questa preziosità che viene fatto agli altri. La stessa parola “celebrazione” potrebbe suonare troppo pomposa se privata di una certa risonanza ironica, ma noi la intendiamo nel senso che le si dà nella cultura anglosassone: celebration, che ha una sfumatura diversa dell’italiano in quanto viene intesa principalmente come “festa”. Ecco, per noi celebrare un arco temporale dalla creazione di un’opera significa organizzare una festa della vita e farne partecipi gli altri, e non c’è niente di autocelebrativo nel senso più tracotante del termine.
AJ – A proposito di celebrazioni, giorni fa vi ho sentito accennare a una “ricorrenza” particolare da cui sarebbe scaturita l’idea di una mostra come EXCERPTⒶ, ma non ho afferrato il riferimento. Potreste parlare un po’ più nel dettaglio di questa “ricorrenza”?
EC – EXCERPTⒶ è stata concepita e inaugurata nell’autunno 2017 in seguito a una proposta del direttore di Palazzo Collicola Gianluca Marziani, che è anche il curatore della mostra. Per un gioco di coincidenze, lui è venuto nel nostro doppio studio a parlarci di questa sua idea di mostra proprio quando anche noi stavamo riflettendo sul creare in quel periodo un’opera-evento “celebrativa” di uno specifico fatto avvenuto nell’autunno di quarant’anni prima. Attraverso una sorta di sincronicità, nella mente di Marziani e nella nostra, per vie traverse ma al medesimo tempo, il pensiero si è focalizzato su un anelito, su una pulsione a realizzare qualcosa che completasse un arco temporale di quarant’anni. In questo senso EXCERPTⒶ, al di là delle singole opere che contiene, è stata concepita come opera d’arte in sé, opera autonoma dalle stesse installazioni che la compongono: un’opera di Corte/Nurcis/Marziani, non diversa da altri progetti collaborativi che abbiamo realizzato in passato, non solo a quattro mani ma addirittura a sei. Anche il nome scelto per la mostra ha una valenza grafica che lo trasforma in logo o in marchio di fabbrica: ha già una valenza semantica e concettuale autonoma e anche questo concorre nel donare all’intera mostra lo status di “opera”.
AJ – Ma in definitiva di quale “celebrazione quarantennale” si tratta, quando si parla di EXCERPTⒶ?
EC – Durante l’autunno di quarant’anni prima – siamo quindi alla fine del 1977 – io e Andrea avevamo rispettivamente 14 e 15 anni; eravamo studenti del secondo anno del liceo artistico nella nostra città natale – Cagliari, questa “Bouville dell’anima”, come la chiamavo allora – ma non nella stessa classe, cioè ancora non ci conoscevamo di persona. Oltretutto all’epoca il liceo era diviso in due sedi differenti e lontane tra loro – una in via S. Giuseppe, i quel di Castello, e l’altra in centro città, in piazzetta Dettori – e noi eravamo separati anche da questa strana bipartizione. Capitava che a volte ci trovassimo negli stessi ambienti scolastici, nelle stesse aule – per esempio durante i periodi delle assemblee e delle occupazioni scolastiche che nel clima contestatario del ’77 erano piuttosto frequenti – ma dispersi in un contesto vociante e caotico. Forse EXCERPTⒶ è la nostra personale celebrazione di un anno complesso come il 1977, la nostra risposta-posposta al No future… Nel corso di quell’autunno piuttosto movimentato in cui sembrava che le giovani generazioni di tutto il mondo fossero scosse da forti fermenti iconoclasti – ma che non sbocceranno mai in una vera rivoluzione – in città si svolse una interessante manifestazione musicale: la prima rassegna internazionale di musica contemporanea all’auditorium del conservatorio, organizzata dall’Ente Lirico. All’epoca l’auditorium era nuovo di zecca: inaugurato solo pochi mesi prima, si presentava come una delle più ampie e meglio attrezzate strutture del genere in Italia; purtroppo negli anni ’90 lo spazio verrà modificato e i posti quasi dimezzati. La sera, attorno alle otto, prendevo quindi l’autobus e mi recavo all’auditorium incuriosito da quello che si annunciava un evento molto interessante, anche se piuttosto di nicchia. Ricordo l’odore degli ambienti in cui ogni materiale, ogni rivestimento, ogni tappezzeria era nuova fiammante, e il colore rosso vivo delle paffute e morbide poltroncine della platea in cui sembrava che nessuno ancora si fosse mai seduto. Ricordo anche la sensazione di passare dal fresco e dal buio della sera al tepido rossore della sala da concerti, e l’attesa di un qualcosa che non era mai scontato, di un evento musicale basato sulla sperimentazione e sulla sorpresa. Il calendario dei concerti presentava le varie tendenze della scena contemporanea mondiale attraverso i lavori dei più importanti compositori, tra i quali gli italiani Berio, Nono, Bussotti, Maderna, Donatoni, oltre a un giovane quasi sconosciuto, Salvatore Sciarrino, che nonostante avesse appena trent’anni veniva adesso messo assieme ai grandi innovatori delle generazioni precedenti, e che in effetti da subito mi sembrò la presenza più brillante di tutto il contesto.
AJ – Ti avevano colpito più di altre, le composizioni di Sciarrino?
EC – Si differenziavano nettamente per intensità e articolazione della struttura musicale da quelle degli altri musicisti, per la loro comunicatività immediata pur essendo tutt’altro che “facili” e ammiccanti al pubblico, e anche un ragazzino di 14 anni non particolarmente esperto della materia come me poteva rendersene conto. In un momento culturale in cui il mondo del Rock era appena stato scosso alle radici dal fenomeno del Punk, anzi in cui il Punk iniziava a diventare una “moda” e quindi una pantomima di sé stesso, e già si iniziava a parlare di Post-punk e di New wave, pensavo che Sciarrino potesse rappresentare al meglio una specie di New wave del Contemporaneo, una presenza di spicco assoluto nel contesto internazionale della musica “colta”. Non avevo idea di quanto fenomeni del genere, personalità così di spicco, sarebbero state rare e difficilmente ripetibili nei decenni a venire.
AJ – Mi sembra curioso quest’aspetto: un legame tra due studenti d’arte che si crea non incontrandosi in una mostra allestita in galleria o in un museo, come sarebbe da aspettarsi, ma in una sala da concerto.
EC – Mah… Tutta la nostra storia personale in fondo si è svolta non come sarebbe da aspettarsi. Inoltre, noi non abbiamo mai creato barriere tra le arti: non rientra nella nostra attitudine ieri come oggi, e quelle serate organizzate all’auditorium erano del tutto su questa linea. Molte delle esecuzioni musicali avevano più a che fare con la performance art: strumenti distrutti sul palco, palloncini usati come fonte sonora, manipolati in vari modi e fatti scoppiare, eccetera.
AJ – Torniamo alla questione del “quarantennale”.
EC – Dunque a 14 anni mi trovavo a frequentare i concerti di musica contemporanea, chiaramente il più giovane tra il pubblico di quegli eventi, e anche il più vistoso, dal momento che lo stile “studente del ‘77” del mio vestiario non era troppo conforme alle consuetudini di tali manifestazioni culturali. Ma c’era un’altra presenza particolare tra il pubblico di quei concerti: era Andrea, il mio compagno di liceo che già avevo adocchiato di sfuggita tra la folla delle assemblee scolastiche e che adesso ritrovavo, unico tra la miriade degli aspiranti artisti e intellettuali del Movimento studentesco, nello spazio modernista e immacolato dell’auditorium per un evento culturale abbastanza elitario e distante dai tumulti scolastici. È in quell’autunno del ’77, in quel contesto ambientale non casuale, che due giovani artisti non si vedono, ma si notano per la prima volta; non si conoscono, ma si riconoscono: si riconoscono ancora prima di conoscersi attraverso un incrociarsi di sguardi, peraltro fugacemente abbassati per la timidezza – ma già tra di loro è scattato un imprinting della visione, che per un artista è sempre il principale mezzo di conoscenza e analisi del mondo. E quindi, una volta terminate le serate dei concerti, mentre tornavo a casa a piedi attraversando la città notturna e fredda, addormentata e indifferente all’arte e alla musica, come sempre sarà, io portavo con me il ricordo e la fascinazione per i suoni appena ascoltati – provocatori, imprevedibili, iconoclasti – e anche la forte pregnanza altrettanto singolare della figura di Andrea.
AJ – E quando avete parlato tra di voi per la prima volta?
EC – Il conoscersi nel vero senso della parola sarebbe successo solo un anno dopo, nell’autunno del 1978, quando io e Andrea ci saremo ritrovati all’interno della stessa classe, la terza liceo; ricordo che tra le prime frasi che scambiammo ci fu proprio il riferimento al fatto che ci aveva colpito la reciproca presenza a quei concerti di musica contemporanea, ed eravamo già consci dell’importanza della cosa, dell’essersi ritrovati unici rappresentanti di una generazione che nel suo insieme ci appariva culturalmente depressa, livellata. Ma al di là della nostra prima chiacchierata e scambio di idee, ciò che abbiamo voluto celebrare oggi con una mostra come EXCERPTⒶ è il quarantennale del momento in cui due giovani artisti si sono riconosciuti come artisti ancora prima di conoscersi di persona. Perché sapevamo che nell’intuizione di questo riconoscimento erano già contenute tutte le esperienze in comune degli anni successivi: era già il dire addio alla prevedibile condanna alla solitudine dell’artista, e aprirsi a possibilità che altrimenti non sarebbero mai sbocciate in un contesto di provincia. Ci sembra evidentemente quindi, che il riconoscersi abbia, in quest’ottica, una valenza poetica maggiore del conoscersi.
AJ – Per cui si può affermare che EXCERPTⒶ celebri l’apoteosi dello sguardo dell’artista, il quale intuisce eventi e fattori che avranno uno sviluppo nel futuro?
EC – Non solo. Non si tratta unicamente di una questione fisica, retinica, o tantomeno del manifestarsi di una “divinazione” del futuro. Il quarantennale celebra il momento del riconoscersi attraverso il significato che ciò ha assunto l’arco dei quarant’anni successivi a tale riconoscimento. Riconoscersi è un processo infinito, e infatti tra di noi dura tutt’oggi. È questo che conta: il permanere così a lungo nel tempo di un rapporto di continua sorpresa, non competitivo, assai raro tra due artisti diversi come siamo io e Andrea. La competizione a un certo livello pure esiste, ma è stata di puro stimolo reciproco e non certo distruttiva, o tesa alla prevaricazione. EXCERPTⒶ celebra l’ansia e la palpitazione di vita di due adolescenti degli “anni di piombo” e del No future che sboccia in quarant’anni esatti (finora) di un rapporto basato sull’afflato perenne, sulla scoperta dell’altro, sulla collaborazione, interscambio, sostegno, affetto, amore – e inoltre celebra la resistenza ai tentativi reiterati di separazione attuati nei nostri confronti dalle figure del mondo dell’arte con cui abbiamo avuto a che fare: mercanti, collezionisti, galleristi, ecc. Questa è stata la nostra vera rivoluzione privata che non fu possibile realizzare sul piano collettivo nel 1977. Ammetto che ciò sia difficile da capire all’interno dei consueti meccanismi del mercato dell’arte, ma questo non ci riguarda.
AJ – In che modo il direttore e curatore Gianluca Marziani è stato partecipe di questa vostra particolare idea di celebrazione attraverso EXCERPTⒶ?
EC – Gianluca ha sicuramente percepito che il momento per un evento del genere era arrivato e occorreva coglierlo al volo: EXCERPTⒶ peraltro è stata realizzata in un tempo piuttosto breve vista la consistenza numerica delle opere esposte all’interno di uno spazio enorme. Lo ha percepito per vie traverse, non pienamente razionali, perché non era a conoscenza della storia dietro al nostro riconoscersi, eppure, avendo lavorato a lungo con noi in passato, le sue “antenne” hanno captato qualcosa nell’aria. Questo ne fa a pieno titolo un coartefice creativo di EXCERPTⒶ, che in quanto progetto concettuale definito e conchiuso diventa opera d’arte autonoma dal suo stesso contenuto di quadri, sculture, foto e video: una grande opera a sei mani che celebra in maniera del tutto singolare il connubio tra arte e vita, celebra il non-finire dell’afflato dell’adolescenza e delle sue infinite prospettive, e proprio grazie a questo assume un significato peculiare nel contesto dell’organizzazione di una esposizione d’arte. È possibile reinventare il concetto convenzionale di mostra retrospettiva, e noi l’abbiamo fatto a modo nostro.
AJ – Allora le date hanno una particolare importanza simbolica per questa mostra.
EC – Il fatto che, dopo più di tre mesi di durata, EXCERPTⒶ terminerà nel marzo 2018 e le opere torneranno a destinazione proprio il primo giorno di primavera, implica una continua rigenerazione e apertura verso progetti futuri. Attraverso l’arte, la vita può essere una continua primavera; EXCERPTⒶ sarà una delle tante rondini che ne attraversano il cielo.