No Light

a video & multimedia project
by Andrea Nurcis & Enrico Corte

Poster Art

No Light Monthly Report

Free periodic bulletin sent to the sponsors of No Light to keep them informed about the shooting and editing of the digifilm.
Eight pages containing video stills, stage design drawings, photos taken while shooting, memorabilia, etc.
Each issue: edition of 30, signed and numbered by the artists.

No Light Storyboard

Uncensored
No Light

No Light Sproftacchel

No Light Kaleidoscope

Series of 365 prints produced in 1988 to celebrate the 1st anniversary of the No Light‘s première.

NoLight Me Tangere

Afterword by Marzia Todeschi

Testimoni della generazione

Più l'opera di un artista è multiforme e complessa, più diventa facile vedere attraverso essa. Vi si riflettono gli incancellabili panorami storici vissuti da una generazione. Ora andremo ad esaminare un microtassello dell'opera di due di questi artisti. Un microtassello dai giganteschi riflessi, rimandi e rimbombi come nel cavo di un caleidoscopio.

Personaggio in cerca d'autore, ma per sopprimerlo

Cosa succede — e può avvenire spesso — quando un personaggio di pura invenzione prende il sopravvento sul suo creatore? Quando rivendica una sua vita autonoma e sovrappone la propria immagine a quella del suo artefice, cancellandola? E' quello che si son chiesti Enrico Corte e Andrea Nurcis nell'accingersi a realizzare a quattro mani il loro digi-film No Light. All'inizio: i due artisti hanno effettuato una prima selezione di figurazioni ricorrenti nei loro rispettivi lavori degli ultimi vent'anni, nei quadri, sculture e disegni. In seguito a successive scremature di tali immagini, è stata selezionata una galleria di "personaggi" — figure antropomorfe, umanoidi o late-human — su cui fosse possibile costruire una storia o un dialogo (un dialogo innanzitutto a livello di forma). Alla fine: sono rimaste due figure-personaggio, una per Nurcis e una per Corte, sintesi ideali e quintessenze delle loro ricerche estetiche sull'immagine e sulla forma.
Ecco quindi che il "distillato" di Nurcis prende la forma dell' Uomo-sacco o Uomo-straccio (be', dubito che l'artista gradirebbe questa mia definizione, e d'altronde la uso senza prima parlargliene, ma mi sembra di ricordare di avergli sentito dire, una volta, la frase: «l'arte mi rende uno straccio»): personaggio senza fattezze determinate, totalmente rivestito di iuta o canapa grezza come un saio (forse è un lui-maschio) o come uno chador lavato in candeggina (o forse è una lei-femmina), circondato e limitato nei suoi movimenti da oggetti quotidiani visti come strumenti di tortura o di auto-afflizione. All'apparenza personificazione della passività e remissione, scelta o subita, questa persona non ha viso: come unico occhio usa un occhiello metallico cucito nella tela di sacco, e il solo orifizio pare essere una bocca-vulva (discutibile accentuazione, dal mio punto di vista, sull'elemento femminile-passivo, ma è probabile si tratti di una denuncia degli stereotipi vetero-sessisti). Personalmente mi ricorda i versi di Ungaretti: lasciatemi così / come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata; è forse questo il destino di tutte le opere d'arte? (Glossa volante: ragazzi, cercate di "citare" il meno possibile, ma se proprio dovete, citate "nostrano"). Comunque, questo Nurcis-personaggio giocherà qui il ruolo dell'Eremita-martire.
Qual è invece il "distillato" di Corte? E' l'elemento formale-minimale quasi impercettibile che però determina il valore assoluto di tutte le operazioni artistiche in odor di globalizzazione: è il Bollino Rosso, il piccolo adesivo rotondo che ci dice: questo quadro è stato venduto. Secondo le parole di Corte, il Bollino Rosso è il Demone Personale di ogni artista, e quindi l'artista lo/si rappresenta (attraverso la sovrapposizione in chroma-key e l'animazione digitale di parti del proprio corpo sopra i movimenti di un palloncino pieno di sangue) come uno sferico, cornuto e purpureo Demonietto tentatore, iniziante un gioco di seduzione psichica e adescamento fisico ai danni della virtù dell'impassibile e stoico Eremita. I ruoli sono assegnati, diamo il via alla vera partita, cioè al gioco delle interpretazioni critiche.

La vera commedia:

è quella della ricerca dei significati, della chiave di lettura, del perché si sia realizzata una operazione simile. Culturalmente funesta, a mio avviso, l'interpretazione che diede a suo tempo la "prima rivista d'arte in Europa": in un contesto di ripetute imprecisioni e errori di datazione, e per firma di due critici che non ne avevano ancora preso visione diretta, No Light viene rapportato a una supposta rivendicazione di identità etnica spinta fino al "culto dell'isolamento" dei due artisti. In seguito all'invio all'indirizzo della rivista di una lettera di precisazioni con preghiera di pubblicazione — lettera mai pubblicata, nonostante la sua utilità almeno per correggere l'errata datazione del progetto — calò un sipario di censura giornalistica sul lavoro di Corte e Nurcis (la lettera è anche depositata e consultabile presso l'archivio della Presidenza della Repubblica Italiana, quindi consegnata alla Storia; abituatevi al modo di operare sarcastico e imprevedibile dei due artisti). Brillante e profonda, invece, la lettura del critico Gianluca Marziani: No Light come "parodia del Tragico" in un sistema mediatico in cui il vero aspetto tragico è l'essere obbligati a passare attraverso la parodia per parlarne.
Ma di solito il primo pensiero "critico" che si sviluppa su No Light esibisce solo una maliziosa curiosità dei critici, e va a tangere la sfera personale degli artisti. Quanto si nasconde e quanto invece si rivela del suo autore, sotto la maschera del personaggio? L'opera a quattro mani è veramente una parodia della loro relazione? Si parla anche di sesso; ci sono velate allusioni particolari? Lo scopo è "lo scopo"? Ogni curiosità è lecita, ed è pur vero che viviamo in un periodo dove alcuni direttori di riviste specializzate d'arte hanno inserito il gossip tra gli argomenti e i contenuti specifici (dico sul serio, non per scherzo: pittura, scultura, fotografia, performance, video, gossips... tutto ben stampato sulla copertina di una rivista, tanto per alzarne il livello).
Essendo, come vedremo, una operazione caratterizzata dalla ridondante prolissità di immagini, chiare e forti, e sparpagliate attraverso tutta una serie di prodotti collaterali di varia natura, in cui confluiscono e si mixano i variegati universi visivi di due artisti, è facile favorire meccanismi di interpretazione che conducano alle private attitudini degli autori. Dopotutto parliamo di due tizi che, se si sono aperti alle varie collaborazioni, per anni hanno anche difeso la privacy del loro inaccessibile "castelluccio" (la loro villa-studio) alle porte di Roma. Ma cosa fanno quando stanno insieme, i due artisti? Proprio perché i molteplici elementi, di cui l'operazione è costituita, sono disorientanti, ognuno di essi può nascondere la vera chiave di lettura dell'opera. E siccome per alcuni trovarla diventa una scommessa — anche solo per aver qualcosa da dire — passo passo si arriva al livello di quei maniaco-depressivi esaminanti centimetro per centimetro copertine e retrocopertine di dischi per poi scoprire che Paul è morto. Certamente che No Light contiene dei messaggi occulti, delle frasi e scene da far girare al contrario, delle immagini subliminali e anche dei segreti criptati. Ma ciò non intacca né accresce il valore di quella che è una basilare operazione non di ricerca d'identità ma di vertigine e straniamento, una operazione su ciò che è lecito cedere o non cedere di sé stessi, all'arte, per un posto nella Storia; una operazione tutto sommato semplice nella sostanza, ma mai tentata in questi termini da alcun artista.

Si, no... ssi

Per coloro che, errando, ritenessero primaria la funzione della storia, nel senso della sceneggiatura, in un'opera narrativa, immaginiamo una possibile sinossi di No Light, una tra le tante. E' una sinossi che tentenna, indecisa, prossima allo sfilacciamento; ma tentiamo. Due personaggi di differente estrazione a cui non sono estranei elementi di contrapposizione sia sessuale che di ispirazione religiosa, instaurano un dialogo non solo attraverso le parole ma anche tramite un continuo campo/controcampo di immagini, stili di auto-rappresentazione, riferimenti a diversi linguaggi mediatici colti e/o popolari. Questa "conversazione" stratificata presto prende la forma di un tentativo di seduzione sviluppando caratteristiche altamente conflittuali per cui uno dei due protagonisti — il Demonietto — alla fine pare essere il vincitore, ma all'ultimo momento si rivela un perdente quanto il suo antagonista. Infatti entrambi i personaggi, difensori di quei ruoli caratteriali che definiscono la loro specifica identità, scopriranno presto la loro inanità nella presa di coscienza di essere manipolati da un dio crudele il quale, per puro divertimento, ha inventato per loro quegli stessi ruoli e identità di cui andavano fieri e di cui diverranno vittime. Subentra lo spappolamento dell'Eremita (per contaminazione da virus) e l'esplosione del Demonietto (per accesso d'ira), con conseguente centrifuga/masticamento/ macerazione/omologazione mediatica tra le fauci di dio che funge da Lavatrice della Storia (peraltro, esiste una mini-variante di No Light in forma di spot pubblicitario per vendere lavatrici marca Nemesis). Il finale volge al tragico, ma resta comunque ambiguo e aperto, contraddicendo esso stesso il suo classico ruolo di "termine di un'opera". Si suggerisce nei titoli la possibilità di una "seconda parte", con ulteriori colpi di scena, ma, essendo già passati dici anni, l'attesa si diluisce in modo indefinito e non ci è dato di sapere se ciò si verificherà domani o nel 2046. Rischiamo di non scoprire mai se quello stronzo di dio esiste veramente. Come nella vita vera.

In mezzo a tutto ciò:

vi è quello che conta di più, ossia il modo e le scelte attraverso cui la storia viene illustrata: un florilegio di manipolazioni tecniche, stravolgimenti del mezzo digitale, mascherature blurrate dell'inquadratura, uso della luce colorata come pittura, intromissione subdola di lampi fittizi creati al computer, disturbi strani, filtri cromatici, scattosità artificiosa e distorsioni dell'immagine, cibo usato in modo improprio, primissimi piani e particolari con assai inedite prospettive del fallo maschile eretto, riflessioni ingannevoli su doppi vetri e specchi, mescolanza di animazioni e grafica 3D con la realtà e mescolanza di ciò con trucchetti da baraccone che neanche nei film della Hammer, vomito multicolore in chiave psichedelica proiettato su scala scenografica, recitazione un po' dilettantesca, alterazione impropria dei tempi narrativi tramite diluizione e condensazione del girato a livello dell'editing digitale. Una piccola chiosa andrebbe dedicata alla sottile infusione, nei confronti dell'audience, della pervadente antipatia del queerulo Demonietto, un ulteriore elemento quasi materiale che cresce col tempo dell'opera, distillato sequenza dopo sequenza, e che contraddice l'eterna ricerca di una ideale empatia dell'artista in rapporto al suo pubblico.

Portate fuori la spazzatura

E sia detto una volta per tutte, visto che qualcuno ha tirato in ballo queste — già fuorimoda — categorie: siamo lontani da alcunché possa definirsi Trash o Splatter. Entrambe queste definizioni prevedono uno sguardo "dall'alto", si riferiscono a sgangherati prodotti di serie B che vengono interpretati intellettualmente da chi si ritiene in possesso di una cultura talmente raffinata da potervisi divertire con ironia: interessandosene, se ne prendono le distanze. No Light non si guarda dall'alto, si osserva dal basso: No Light si subisce, No Light è un reato di plagio del campo visivo degli spettatori.

Se sei artista non sei pessimista

No Light, nessuna luce, potrebbe essere il film dell'assenza di speranza e del buio metaforico che adombra lo spazio e il tempo delle Illusioni Perdute (le illusioni di un'arte che non può più cambiare la Società di cui è un prodotto). Ma anche film no light, obeso, eccessivo, ridondante, maldigerito e borbottante nello stomaco dello spettatore dell'arte: film non leggero, non dietetico, panciuto, ruttante. Pessimismo degli autori? Non esattamente, piuttosto loro scettico distacco nei confronti dell'inadeguatezza dell'arte mediatica all'interno delle prospettive del mondo reale.

Ex-empi per il popolo

No Light(s), dunque: al di là del doppio senso e del gioco di parole, vi è una polisemanticità che deborda dal titolo e invade l'essenza stessa dell'opera. Polisemanticità in quanto compresenza di vari codici linguistici all'interno del medesimo mezzo espressivo — il digi-film — visto non come "contenitore tritatutto" di tardomoderna memoria, bensì come labirinto degli specchi deformanti in cui ogni codice si riflette in qualcos'altro, producendo mutazioni linguistiche e inediti morfofonemi da analizzare. Esempio numero uno: l'uso in apparenza ingenuo della lingua che i due personaggi usano per dialogare — ispirata alle nursery rhymes, poesiole e filastrocche dei libri per l'infanzia — strutturata su quartine in rima alterna il cui centro ritmico però viene fatto scivolare di continuo, avanti o indietro. Difficile liberarsi la testa da questa ossessiva cadenza, anche molto dopo la visione del film. Esempio numero due: la funzione della musica, del soundtrack, non solo come accompagnamento ma come portante sostrato concettuale. Non a caso, viene principalmente usato un vecchio pianoforte primo-novecento, col classico suono da film silente (l'infanzia del cinema, i suoi vagiti); il pianoforte subisce poi i filtraggi di sofisticate apparecchiature digitali, il che, invece di conferire un tocco di modernità, finisce per accentuare la provenienza "aliena" e sovrastorica dei suoi suoni. E anche qui, dentro le singole musiche che seguono passo passo le varie scene-dialogo, il centro tonale glissa di continuo avanti e indietro, con movimento copulatorio, producendo strutture melodiche solo in apparenza semplicistiche, ma la cui classificazione dal punto di vista compositivo è in realtà composita, è problema. Esempio numero tre: tutto il resto dell'operazione, dalle sculture-costumi ai quadri-scenografie, a vostra scelta; ogni elemento è stravolto dagli autori nelle sue consuetudini e reinventato nella sua chiave di lettura. Altrettanti abnormalismi prodotti dall'ineffabile incesto tra due artisti.

Dialettica negativa?

Doppio senso anche nella compresenza di due autori, dunque due artisti che qui si manifestano in coppia, pur non operando come coppia: infinito equivoco che occorre dissipare una volta per tutte, al di fuori di tutte le "norme accettate", di tutti i cascami sociali del Sistema dell'arte.

Dove sta la novità

Intendiamoci: lavoro in coppia qui vuol dire direzione alternativa sia alle convenzioni del lavoro singolo dell'artista individualista e chiuso nel suo mondo, autoglorificante il proprio ruolo, sia alle ancora peggiori convenzioni delle "coppie di artisti", la cui operatività si struttura in base ai ruoli codificati dei "contratti di matrimonio". Varare dunque una terza strada, ecco finalmente l'idea che sta dietro la firma Corte-Nurcis: ecco due artisti che lavorano individualmente aprirsi alle collaborazioni (che negli anni sono state tantissime con i più svariati personaggi, e non solo nell'ambito della loro produzione video-cinematografica) ma, all'interno di questa apertura, privilegiare come base di partenza l'antico rapporto tra loro due.

Etant Donnés: 1) i dati tecnici:

No Light — The Morbid Embrace, by Enrico Corte & Andrea Nurcis; producer: Philadelpho Prod., Rome, 1996 (release 1997); editor: Absolut Studio; digital video (4:3), color, 30 min. Soundtrack by La Partouze. Chi altro? Che si dice della troupe? Be', innanzitutto, nessuna intromissione di troupe durante le riprese, a parte i due artisti-performers-protagonisti: un film senza troupe, dove il contributo dei tecnici, elettricisti, fonici ecc. — se contributo c'è stato — si ferma allo scattare del primo ciak — se ciak c'è stato. Apologia del cinema-solitudine, o isolazionismo filmico? Al contrario: ripetiamo che qui si parla di due artisti che scelgono di operare collettivamente e usufruire delle collaborazioni. Ove tutti sono invitati a uscire dal set, ciò avviene per discrezione e rispetto a una "azione" in cui si mette in scena il dolore in tutta la sua funzione di finzione, ma in cui anche — per estremo paradosso e per una serie di circostanze — le scene hanno finito per rivelarsi fonte di vero dolore per entrambi i protagonisti, con accessi di isteria non programmati (persi col montaggio, ma vedete le cosiddette rushes del film, se vi capita!) e furibondi scoordinamenti generali, quasi "epilettici", previsti sì per il pubblico a venire — tramite l'inserimento nel montaggio di ripetuti lampi luminosi atti a scatenare l'epilessia nei bambini — ma in realtà esperiti prima dagli artisti stessi, vittime della loro arte.

Il miraggio della Libertà

La versione integrale, uncensored, di No Light è stata proiettata in pochissime occasioni. L'opera è destinata a diventare un "classico" dell'arte europea contemporanea; eppure il più delle volte, sia per scelta dei suoi autori, sia per "imposizione" delle varie strutture espositive — è il caso, ad esempio, della proiezione su grande schermo all'interno del Padiglione Italia della 48° Biennale di Venezia sotto la sorveglianza dei poliziotti di Herr Szeemann, r.i.p. — il pubblico ha potuto prendere visione solo di una versione "castigata" dell'opera. Il che non si può dire che sia un male, anche perché in realtà esistono quattro o cinque differenti versioni di No Light, non tutte rese pubbliche, che variano in lunghezza, contenuto e altri particolari; comunque non è questa la sede per analizzare i motivi delle ripetute censure italiane di questo come di altri lavori di Corte o di Nurcis, motivi che principalmente originano dalla predominanza di una pruderie cattolica-apostolica-romana anche e soprattutto all'interno degli ambienti pseudosinistresi e pseudoprogressisti dell'arte. Diciamo invece che il prodotto-miraggio, l'opera che appare e scompare inopinatamente, con fattezze fluttuanti e vagamente non concomitanti tra una epifania e l'altra, è una ulteriore conquista — e novità, e libertà — di Corte e di Nurcis. Così sia.

Ascesso della personalità

No Light è il primo film d'artista realizzato in Italia su formato digitale. Rivendicazione di primati tecnici a parte, una cosa conta veramente: a distanza di dieci anni dalla sua realizzazione, si può dire che No Light — come tutti gli altri lavori del genere a firma Nurcis-Corte — sia un'opera che, nella sua complessità, non ha eguali nel panorama della videoarte italiana e/o internazionale: nulla di simile è stato fatto né prima, né dopo. Qualcuno parla di eccesso di personalità, e vorrei vedere il contrario, dal momento che qui le personalità sono addirittura due e non tra le minori. Comunque, per alcuni critici, questo è un elemento di sospetto; per me, che non credo alla critica d'arte come professione, è un fattore di incommensurabile pregio. Sosteniamo che il recesso dalla personalità stia nel pensiero di alcuni critici.

Consumando No Light

Ma No Light non è solo un film. Anzi, è uno di quei sempre meno rari casi in cui le successive strategie di marketing e merchandising finiscono per assumere un ruolo più rilevante e complesso del prodotto da promuovere. Qual è la strategia di Corte e Nurcis? Sovvertire il concetto di merchandising — produzione standardizzata ad uso della massa meno sofisticata — per un infinito fioccare di idee creative, spettacolari soluzioni estetiche e paradossali gadgets che sono il giusto corollario caleidoscopico a una operazione multilivello e senza confini come No Light. Esaminiamone qualcuno:
-No Light Blackboard: è una scenografia del film? Certo che lo era, ma è trasmutata in un quadro vero e proprio, una grande opera realizzata con passione, genio pittorico e manualità certosina dai due artisti in persona; ma è anche uno storyboard dello stesso film: ci appare come una lavagna da scuola elementare su cui si può leggere un raggrumarsi di annotazioni, figure, pupazzetti, appunti, diagrammi, numeri, geroglifici e segni attraverso cui il film si costruisce nei suoi aspetti tecnici.
-No Light Sperm Tanks: come un oggetto scenico caratterizzato da discrezione e buon gusto diventa un simpatico gadget con ventose particolarmente indicato per aderire ai finestrini delle autovetture. Torniamo a far l'amore in automobile, a 200 all'ora.
-No Light Songbook: pregevole cartella contenente le partiture originali, firmate e numerate, della colonna sonora del digi-film.
-No Light Magnetic Puzzle: questo è meglio del cubo di Rubik, dove alla fine scoprivi il trucchetto; assai meno facile è completare questo puzzle a doppia faccia Demonietto-Eremita: giochino che "rema contro" gli stessi giocatori fornendo tasselli magnetizzati che si respingono a vicenda.
-No Light Salt & Pepper Shakers & Mills: eleganti e pratici utensili da tavola, raccomandati per le liste di nozze.
-No Light Inflatable Sex Dolls: ce ne sono di due tipi, con le fattezze dell'Eremita e con quelle del Demonietto; superresistenti, con serbatoio, quasi atossiche (è in corso una ricerca di mercato per sapere quale modello incontra il maggiore gradimento degli acquirenti).
-No Light Mystiglaz: l'invenzione del secolo; grazie a una miscela chimica e ai raggi del sole, avvisi pubblicitari luminosi appaiono all'improvviso sulle vetrate degli autobus, meravigliosamente distraendo e abbagliando i passanti e i guidatori delle altre auto.
-No Light La Partouze's Sexy Vinyl Single : disco in vinile con due estratti della colonna sonora del digifilm, che è anche un ottimo test per verificare, divertendosi, il tasso di tolleranza dei tuoi pargoletti in caso di epilessia latente e non ancora diagnosticata.
-No Light Magickbox: questo scopritelo da soli, non voglio rovinarvi il piacere della sorpresa... ma affrettatevi all'acquisto: l'edizione è limitata.

Celebrando No Light

E poi le molteplici "celebrazioni" perverse di No Light, i ricorrenti "anniversari" nel tempo, altrettante occasioni di rimettere in discussione — non in modo pedante ma allegramente e fantasiosamente — la fruizione, e l'eterno ritorno, e la sempiterna rinascita di un'opera d'arte. La celebrazione per il quinquennale (1996-2001), col lancio dei Day-rip Fireworks (non fuochi ma "fumi" artificiali che invertono la nostra abituale percezione luminosa come in un negativo fotografico) e poi quella per il decennale (2006) con l'invenzione del No Light Kaleidoscope — sul quale ho piacere di dilungarmi nei paragrafi successivi perché mi sembra essere un po' la ciliegina sulla torta di tutto questo delirio creativo.

Conoscere la realtà vuol dire distruggerla

Premessa scientifica, ché di scienza si tratta. Non ci rendiamo mai conto che il nostro occhio percepisce, degli oggetti che popolano la realtà circostante, solo i contorni. Ci illudiamo di "vedere" le superfici delle cose, di comprenderle e valutarle attraverso il colore e la grana della materia, ma il nostro cervello reagisce solo quando lo sguardo scivola sul loro perimetro: è allora che noi leggiamo l'oggetto come de-finito, conchiuso, concreto, collocato stabilmente nel suo spazio. E dunque Corte e Nurcis hanno fatto il seguente ragionamento: attraverso il film possiamo distorcere la realtà, evocare stati alterati della coscienza visiva, suggerire anormali relazioni tra gli oggetti, diluire o condensare lo scorrere del tempo narrativo in maniera sincopata, inserire immagini subdole/subliminali, introdurre effetti luministico-stroboscopici che stimolano gli attacchi epilettici (questo e altro vi è in No Light), ma ancora non ci basta; per sopprimere ogni sensazione di stabilità percettiva, per creare nuove vertigini, per scoperchiare il baratro sotto di noi, dobbiamo distruggere il perimetro degli oggetti, delle scene, delle situazioni rappresentate nel film.

Arte e tecnologia

Di conseguenza, Corte e Nurcis hanno sviluppato un software che interviene sulle sequenze filmate di No Light secondo un processo desunto dal caleidoscopio, e dopo averle trasformate le proietta entro visori tubolari da applicare agli occhi dello spettatore. Le immagini vengono prima digitalizzate e frantumate geometricamente nei loro contorni; in seguito vengono ricomposte secondo la logica speculare del classico gioco per l'infanzia — il caleidoscopio, appunto — ma in modo più articolato e complesso, ossia attraverso successive sovrapposizioni di moltiplicatori speculari e distorsori algoritmici che di volta in volta sminuzzano i perimetri delle immagini in modo aleatorio. Il confine delle cose a noi note viene sì dissolto, ma davanti ai nostri occhi nascono subito impensate profondità di campo in cui smarrirsi, ignoti lucori di materie organiche da rimirare, mucosi orifizi da cui farsi sedurre, ghignanti ectoplasmi da cui farsi perseguitare.

Tecno-illogicamente arte

In questa fase l'applicazione ha ancora un carattere sperimentale e deve essere perfezionata, ma gli artisti addirittura prevedono, e stanno lavorandovi, una duplice e simultanea galleria di effetti caleidoscopici da sviluppare attraverso due sequenze di immagini separate, ognuna delle quali viene ad essere indirizzata a ogni singolo occhio dello spettatore tramite i visori tubolari, moltiplicando al massimo gli effetti disorientanti e ammaliatori del vortice speculare. In pratica, chi osserva il KaleiNoLight attraverso il visore, percepisce una sequenza caleidoscopica nell'occhio destro, e un'altra, differente e s-coordinata, de-logica, nell'occhio sinistro. Ciò dovrebbe risvegliare alla mente — al Terzo Occhio — la famosa e vagheggiata Immagine Prenatale. Ancora arte e tecnologia? Ma no, arte e tecnoillogica.

Parentesi istruttiva

Il caleidoscopio — dall'etimo greco che significa "oggetto che permette di vedere belle forme" — fu creato nel 1817 dallo scienziato scozzese David Brewster (Jedburg 1781 - Allerby 1868), membro dell'Istituto di Francia, dell'Accademia di San Pietroburgo, dell'Accademia delle Scienze di Berlino, Stoccolma, Copenaghen e Göttingen. Suo testo di riferimento: A Treatise on Kaleidoscope, pubblicato nel 1819 a Londra. L'oggetto scatenò subito sia la curiosità della gente comune sia l'interesse della comunità scientifica. Il funzionamento è semplice, e d'altronde il genio consiste nel guardare le cose più comuni sotto un'angolazione appena differente: una struttura tubolare di modeste dimensioni è rivestita all'interno da due o più lastrine specchianti, su cui scorrono alcuni piccoli frammenti colorati di vetro. Ruotando la struttura tubolare si genera all'interno una moltiplicazione delle immagini degli oggettini in base a una simmetria centrale sempre variabile. Fino ai giorni nostri, il processo del caleidoscopio, e il concetto di struttura simmetrico-progressiva che ne sta alla base, ha ispirato alcuni tra i maggiori scienziati, matematici, astronomi, filosofi, storici, antropologi, teorici estetici e artisti. Ma il caleidoscopio è anche uno dei più noti e diffusi giochi per l'infanzia di tutto il pianeta, riuscendo come pochi altri oggetti a unificare tutti gli stadi dello sviluppo psicosociale dell'uomo. E secondo Corte e Nurcis ne condiziona anche l'orientamento sessuale.

Arte indecorativa

Dall'azione del caleidoscopio sul loro digifilm, Corte e Nurcis hanno tratto una serie di stills, ognuna titolata con termini non necessariamente aderenti ai singoli contenuti visivi, ma piuttosto scelti in base a reciproche allitterazioni. Ma una relazione tra titolo e immagine può nascere spontanea nella mente del fruitore. Letti tutti di fila, i titoli ricordano il suono di un mantra, così come le varie stills possono sembrare dei multicolori mandala. Costruite sulla simmetria speculare, queste stills infatti paiono tutte dominate da un intento decorativo; decorazione sì, ma come ipnosi, suggestione subliminale, ossessione percettiva, stimolo coattivo, lavaggio del cervello. Titoli pesantucci, d'altro canto, che sembrano tratti da un immaginario apocalittico virato in chiave Industrial Culture. Insomma, non si sta mai tranquilli. Che tempi, signora mia, che tempi... mah, sarà colpa di tutti questi forni a microonde!

Croci e Delizie dell'Arte

Però, avuta conoscenza di tutto ciò, un dubbio ci rimane. la simmetria del caleidoscopio applicata a No Light, con tutte queste formazioni cruciformi, con tutte queste immagini esplicite che copulano e si ingravidano incrociandosi tra di loro, non sarà semplicemente una presa per il culo della Croce? Non rivelerà di fatto il profondo e irrinunciabile antipapalismo di Corte e Nurcis?

Ma cosa fanno quando sono insieme?

E voglio tornare e concludere sugli autori, sui due artisti spogliati infine dei costumi di scena e dei trucchi, emancipati dal sopraffacente influsso dei loro personaggi. Oggi sono andati via da Roma, e occorrerebbe creare per loro la nuova definizione di artisti atopici. Il loro "castelluccio" (la villa-studio in zona Certosa) è entrato nella leggenda dell'infanzia del nuovo millennio artistico. In città restano solo le loro mascheranti personificazioni, appese alle pareti di qualche collezionista privilegiato. Via i costumi di scena degli artisti, dunque. Io che li ho spogliati entrambi nel vero senso, letterale, della parola; io che li conosco da sempre, io che per prima ho scritto, negli anni '80, su di loro e sul loro lavoro; io che ho un ricordo ancora vivo di un Corte efebico ragazzino che gira per i tetti dei palazzi, di soppiatto, al calar della sera, alla ricerca della giusta balaustra su cui salire, porsi in equilibrio nel vuoto e farsi fotografare — e nel frattempo mi racconta lunghissime barzellette; io che ho frequentato un Nurcis adolescente che consuma pacchi di penne a sfera realizzando nerissimi disegni su centinaia di fogli di carta — la maggior parte dei quali destinati a sfaldarsi tra le mani per l'eccessiva consunzione dovuta al disegno stesso — e con i quali ammanta intere stanze; ebbene io stessa, dicevo, tutt'oggi non posso dire di conoscerli a fondo. Io stessa mi ritengo un'esclusa, e ancora non so spiegare quel loro mistero, la permanenza del loro fascino, della loro magnetica alleanza, quasi demoniaca e indecifrabile ai più, che negli ultimi quarant'anni ha permesso e tuttora permette loro di incontrarsi, separarsi, viaggiare per il mondo in direzioni opposte e poi incontrarsi di nuovo, e riprendere senza batter ciglio la loro reciproca intesa che direi telepatica, fatta di segni e di linguaggi criptati, di riferimenti ad altri mondi, a ineffabili e quasi innominabili svolte di identità, a nuovi, impensati progetti, individuali o comuni, a cui donarsi.

Marzia Todeschi, Montparnasse, Paris, November 2008