Baby Performance Art
Enrico Corte in conversazione telefonica con Marzia Todeschi.
Registrazione su nastro, 1993; multiplo in 100 copie
firmate e numerate in confezioni d'artista.

Marzia Todeschi – In una recente tua esposizione nella galleria Raccolta Multimedia a Roma hai esposto una serie di dodici fotografie di te da bambino o ragazzino, con titoli messi apposta per l’occasione. La serie copre un arco temporale che va dal 1964, cioè da quando avevi un anno, al 1979. Perché hai ritenuto di dover fare una operazione di “recupero” di questo tipo?
Enrico Corte – Non capisco cosa intendi con recupero. Se un pittore espone un quadro di tre anni prima, è forse recupero? Penso proprio che in mostra si portino i propri lavori, che possono anche non essere recentissimi, giusto?
MT – Giustissimo, ma qui l’artisticità stava solo nei titoli che hai messo: il repertorio fotografico in mostra erano solo normali foto di famiglia degli anni ’60 e ’70. Il titolo in questo caso trasforma un materiale non artistico in opera d’arte concettuale, per così dire.
EC – Continuo a non capire; a me sembra proprio che i titoli non facessero altro che illustrare ciò che appare nelle fotografie, quindi il nucleo dell’opera è sempre nell’immagine: è lì che devi andare a cercare “l’artisticità”, come dici tu.
MT – Le immagini delle foto sono pose di te da bambino, e dal momento che a quell’età non eri ancora un artista, mentre lo sei adesso che hai messo i titoli alle foto, mi sento libera di dedurne che l’operazione ruoti attorno al recupero di vecchie foto riattualizzate con titoli che diano loro un senso artistico, appunto.
EC – Guarda, oggi caschi male perché non ho molta voglia di ripetermi, e inoltre le interviste per telefono non hanno molto senso per me: una conversazione consiste anche di un aspetto visivo, di espressioni facciali, di giochi di sguardi tra persone, tutta roba che aggiunge senso all’interrelazione, allo scambio di idee, ma che qui si perde per una scelta di conduzione telefonica dell’intervista, che è una scelta tua, non mia. Per di più se si parla di opere d’arte la cosa più normale dovrebbe essere averle sott’occhio una per una in questo preciso momento, non riferircisi in astratto. Ad ogni modo, spiegami tu in che momento della mia vita sarei “diventato” un artista e perché un bambino non possa possedere una sua creatività innata, da riconoscere come tale. Lo sai tu che Paul Klee, così preciso nel numerare ogni sua pittura o disegno, fa risalire la catalogazione delle sue opere ai disegni infantili?
MT – Conosco tutto di Klee e posso dire che i suoi disegni infantili erano appunto opere grafiche fatte da bambino che rappresentano uno stile espressivo prettamente infantile a cui l’artista adulto ha continuato a guardare e ha usato come perenne fonte d’ispirazione; nel tuo caso abbiamo foto di te bambino fatte da un adulto, probabilmente un familiare, e nel corso della tua attività come artista maturo hai prodotto lavori ben diversi. C’è una certa differenza di impostazione delle due cose, pur senza togliere niente al fatto che tutto possa essere arte se l’artista decide che lo sia. Vorrei anche sottolineare che, dal momento che posseggo una memoria fotografica eccellente, ricordo con precisione tutte le foto presenti in mostra; inoltre, guardando le foto ho preso appunti e quindi ne possiamo parlare singolarmente e nei dettagli, avendole ben presenti in mente pur non avendole sotto gli occhi. Allora, ciò che ti chiedo è di parlare dei contenuti di quelle foto, analizzate una per una, e di spiegare perché titolo e immagine combaciano e confluiscono nel donare valore artistico alla foto stesse.
EC – Se c’è un oggetto che si spiega da solo è proprio una fotografia. Comunque parliamone pure nel modo che preferisci. Da dove vuoi iniziare?
MT – Beh, per ristabilire un minimo di equilibrio tra l’intervistante e l’intervistato, che mi sembra si sia un po’ perso, vorrei dirti che ho trovato stupenda la mostra a Raccolta Multimedia, sia come concetto in sé sia dal puro punto di vista visivo. Ritengo che tu con quella mostra abbia trovato una modalità espositiva e un modo di parlare della creatività umana nuove e inedite nel panorama italiano e probabilmente anche internazionale.
EC – L’intento di partenza nel fare la mostra era quello di ottenere il massimo dei risultati possibili coi minimi mezzi a disposizione. Questa per me è sempre la regola più importante. Grazie dell’apprezzamento. E non c’è stata alcuna infrazione di equilibrio tra noi.
MT – L’idea di usare il bambino e il contesto in cui vive come metafora della creatività umana e del ruolo dell’artista nella società non è nuovissima in sé; è nuovo e stimolante il modo in cui tu articoli questo discorso.
EC – Le fotografie sono immagini, cioè il contrario di un discorso.
MT – Hai capito benissimo cosa voglio dire. Anche i geroglifici egiziani sono immagini, ma attraverso di loro si articolano discorsi, cioè manifestazioni del pensiero e comunicazioni linguistiche. Allora, per prima cosa, visitando la mostra, ho notato la datazione delle foto che appare nelle didascalie. Ce n’è una scattata nel ’64, qualcun’altra nel 1966 o nel ’67; arriviamo fino al 1979. Ma, oltre a queste datazioni, nelle didascalie hai aggiunto anche un’altra data, una data comune a tutta la serie di foto in mostra, cioè 1983. Quindi le didascalie dicevano: 1966-1983, 1967-1983, eccetera. Perché questa scelta?
EC – Le datazioni relative agli anni Sessanta e Settanta corrispondono a quando le foto sono state scattate, e questo è evidente perché io appaio nelle foto come un bambino o un ragazzino. Il 1983 è l’anno in cui ho messo i titoli alle foto; i titoli, come ti ho detto, accompagnano lo spettatore – il fruitore, come dicono gli intellettuali – nella lettura di ciò che le foto rappresentano, ma non alterano per niente il loro contenuto visivo o dal punto di vista della semantica: non deformano il rapporto tra significante e significato. Nel 1983 appunto ho messo in mostra per la prima volta una parte di quella serie di foto degli anni ’60-70, e le ho intitolate nel modo in cui tutt’oggi sono intitolate. Tutto qui. Penso che proprio tu, che ti sei proposta come curatrice del catalogo generale delle mie opere, dovresti ben conoscere questi dettagli, Marzia… o no??
MT – Il corpus dei lavori di un artista, seppur ancora giovane come sei tu, può già comprendere alcune migliaia di opere di cui nessuna curatrice d’archivio può avere una panoramica generale fin da subito. Insomma, non si finisce mai di imparare e certamente ciò che ci stiamo dicendo contribuirà a farmi avere una visione migliore degli sviluppi del tuo lavoro nel corso dei vari decenni. E in questo momento ritengo proprio di essere la persona più qualificata per occuparmi del tuo catalogo generale.
EC – Hm mh.
MT – Allora, riprendiamo il discorso; vorrei che parlassimo nei dettagli di alcune delle foto in mostra a Roma, quelle che io ritengo forse le meglio riuscite. Non so se la parola “riuscite” sia di tuo gradimento, ma almeno questo ti dimostrerà che ricordo benissimo ciò che hai portato in mostra.
EC – Hm mh.
MT – La foto più “antica”, per così dire (mi sento su un campo minato quando uso certe parole con te!), risale al 1964, cioè a quando avevi un anno. È la classica foto familiare amatoriale. Ci si vede un primo piano sfocato di un bambinetto che piange o ride; non si capisce bene.
EC – Tutte e due le cose. Sto “cantando” rivolto verso un piccolo microfono che era collegato a un magnetofono. Per la precisione un magnetofono Geloso G268, il microfono si vede nella foto, in basso. Se il canto è un’espressione artistica, contiene in sé tutta la gamma dei sentimenti: riso e pianto. E io evidentemente esprimevo benissimo questa ricchezza, che non è antinomia ma compresenza. Infatti il titolo è Riso e pianto è canto.

MT – È un po’ l’idea del bambino come polimorfo perverso, che comprende in sé allo stato brado tutte le perversioni dell’adulto.
EC – (sospiro)
MT – La foto successiva, del 1964, intitolata Tanti sassolini bianchi davanti a sé, mi sembra tautologica: il titolo esplicita una già chiara e semplice immagine di te bambino seduto tra una distesa di ghiaia. La fotografia in sé stessa appare piuttosto anonima, convenzionale. C’è una valenza concettuale più sottile nel rapporto tra titolo attuale, messo a posteriori, e fotografia originale del ’64?
EC – Se vuoi, puoi vedere la distesa dei “tanti sassolini bianchi” come una allegoria degli innumerevoli giorni di vita che si prospettano nel futuro di un bambino così piccolo. Bianchi come dei fogli bianchi o delle tele bianche che il giovane artista dovrà riempire con la propria immaginazione.
MT – Quindi è come se la distesa di ghiaia rappresentasse il futuro dell’artista, ne fosse una concretizzazione simbolica, minimale.
EC – La cosa interessante è la fascinazione che ricordo di aver provato per quella astratta distesa di ghiaia, come se far scorrere tra le dita quei sassolini candidi, tutti simili ma anche tutti differenti, fosse un gioco fantastico, che accendesse l’immaginazione più di tanti altri giocattoli “realistici”, peluche, macchinine, eccetera. Perché il bello è che mi ricordo perfettamente di quel momento: quella mattinata, nonostante i tanti anni passati, è uno dei miei più limpidi ricordi della prima infanzia: mi è veramente rimasto impresso, proprio grazie a quella incantevole distesa di ghiaia. Ero stato portato in macchina dai miei genitori in “gita fuori porta”, come si direbbe a Roma; presumo fosse una domenica, e la distesa di ghiaia si trovava in uno spiazzo alberato che fungeva anche da parcheggio davanti a un luogo di ristoro, un chiosco o un bar sul limitare di un’area suburbana, di campagna.
MT – Allora possiamo dire che, se la distesa di ghiaia bianca rappresenta simbolicamente la prospettiva dei giorni futuri, e da qui la sua fascinazione, la fotografia crea un cortocircuito tra la percezione del proprio futuro e la persistenza, negli anni, del ricordo del passato. Come un cerchio che si chiude.
EC – Vedi come su una piccola foto si possono dire tante cose? Adesso rimangiati quello che hai detto prima sulla fotografia anonima e convenzionale!
MT – La terza foto in ordine cronologico, e anche di allineamento espositivo, è datata 1966. Ci sei tu di profilo e sullo sfondo una specie di parcheggio nei pressi di qualcosa di simile a un casolare.
EC – È un maneggio, un ippodromo.
MT – Nella foto tu sei leggermente fuori fuoco mentre lo sfondo è più definito. Si vede la tua manina destra semichiusa a pugno, da cui cade o scorre ciò che sembra sabbia o forse terriccio sottile. Il titolo che hai messo nel 1983 recita: Sandglass Baby, il Bimbo Clessidra. Cos’era questo bimbo-clessidra?
EC – Ecco, vedi come l’aggiunta del dettaglio del titolo ti aiuta a meglio vedere ciò che una vecchia foto di quasi trent’anni fa, per sua natura sgranata e sfocata, è capace di mostrarti. Il titolo ti fa capire che ciò che il bambino tiene nel pugno e fa scorrere verso terra è appunto sabbia e non, come tu potevi anche supporre, terriccio sottile. Nelle clessidre d’abitudine corre la sabbia, non terriccio.
MT – Okay per il titolo, ma vorrei che tu mi spiegassi il perché hai messo in mostra quella foto. La ritieni “bella” in sé? O “significativa” di qualcosa”?
EC – Ancora una volta vedi come il paragone con Klee che ti ho fatto prima non sia campato in aria come pensavi tu. Te lo dico perché vorrei fosse chiaro che non parlo a vanvera. Quella foto del 1966 con il suo titolo del 1983, che orami sono inscindibili nonostante il gap temporale tra scatto e titolazione, può benissimo stare in mostra accanto a mie opere più recenti perché vi è una continuità evidente con, ad esempio, certi autoritratti fotografici o alcuni quadri degli anni’80. In diverse opere pittoriche degli anni Ottanta, come ben dovresti sapere, specialmente nei quadri “a doppia faccia”, è presente l’elemento ricorrente della clessidra. Ecco, non è che la clessidra appaia dal nulla nelle mie opere: la fotografia ti mostra che c’è un preciso antecedente nel fatto che da bambino mi piaceva il gioco di far scorrere la sabbia dalla mano: lo facevo sempre, soprattutto in spiaggia. Ero come affascinato dall’idea di questa infinità di microscopici granelli che scorressero all’infinito dalle mie mani, che ci fosse così tanta sabbia in giro, che fosse impossibile numerare una tale profusione di granelli – esattamente come i futuri giorni di vita che da bambino avrei avuto a mia disposizione, almeno idealmente. Compris?
MT – Oui oui. Ritengo molto “poetico” quest’aspetto del bambino che fa scorrere dalla manina la sabbia dei giorni che gli appare infinita, ma soprattutto il fatto che tu nella foto abbia un’espressione piuttosto malinconica, con lo sguardo perso in lontananza, come assorto nella griglia dei tuoi pensieri che sei troppo piccolo per poter articolare coerentemente. Non proprio preoccupato, ma neanche sereno.
EC – Non ho nulla contro l’uso della parola “poetico” in questo caso.
MT – Ne sono felice. Ti sei dimenticato di aggiungere che le clessidre che appaiono in molte tue opere degli anni ottanta sono rovesciate, cioè appaiono in posizione orizzontale. Quindi la sabbia non può scorrere al loro interno. C’è una grande differenza. Come la mettiamo?
EC – È la riposta dell’artista maturo agli inquietanti interrogativi nati nella mente dell’artista in erba osservando la sabbia scorrere tra le dita della mano e riflettendo sul tempo che va.

MT – Ma sicuro. In un’altra foto, che ritengo piuttosto enigmatica, hai posto un titolo che dice Il disegno telepatico. L’ambientazione è urbana e vi riconosco uno scorcio di Cagliari: sei sulla strada che si trova sul lato posteriore dei giardinetti della fontana di piazza Repubblica, proprio davanti al Palazzo di Giustizia. Tu appari come un bambinetto piccolo piccolo, seduto su un muretto o su un bordo in muratura di un’aiuola, con gli occhi chiusi, assorto nei tuoi pensieri di bimbo, concentrato in te stesso. Di fianco a te, sul muretto, è appoggiata una matita. La foto è stata scattata nel 1967. Ma chi scattava tutte queste foto e perché il disegno è “telepatico”? Non si vede alcun disegno nella fotografia, solo tu e una matita in primo piano.
EC – E non si può veder alcun disegno proprio perché e telepatico, mi sembra evidente! Vuoi sapere chi scattava le foto? Quella e quasi tutte le altre foto in mostra sono scattate da mio padre, che non era un fotografo professionista e non usava attrezzature di alto livello. All’inizio usava una Ferrania Ibis 6×6 con obbiettivo Primar da 85 millimetri, che ho ancora: oggi appare come un residuato bellico. Mio padre non aveva alcuna cultura artistica nel campo dell’arte moderna; conosceva solo per grandi linee l’arte del passato, del Rinascimento, eccetera. E non aveva velleità artistiche o autoriali quando scattava le foto; cercava di trovare dei momenti particolari in modo non dissimile da quello in cui ancora oggi un genitore scatta delle foto al proprio figlio. Con me come figlio, quei tipici “momenti particolari” assumevano caratteristiche assai peculiari al di là della stessa volontà di mio padre, a quanto pare, se ancora oggi stiamo a discutere di quelle immagini in un contesto artistico che mio padre non avrebbe nemmeno capito.
MT – Vuoi quindi dire che eri un bambino “peculiarmente” fantasioso al punto da immaginare disegni inesistenti per pura telepatia? E con chi avveniva questa telepatia?
EC – Allora… continuiamo con lo “spiegone”… Spero solo che ciò serva a qualcosa, visto che tu dovresti essere l’archivista del mio catalogo generale. Da bambino ero molto “dotato” per il disegno, come si dice. Non a caso che sono diventato??
MT – Un artista?
EC – Bene, fin qui ci siamo. Si può dire che fin da piccolo, anzi piccolissimo, ero un artista in erba – come Klee appunto, e tanti altri altri artisti della storia: fin qui nulla di straordinario. Ovunque andassi mi potavo sempre dietro carta e matite o pennarelli per scarabocchiare. Disegnare era il gioco più bello del mondo, e non costava niente. Quella mattina del 1967 in piazza Repubblica avevo forse esaurito la carta ma mi era rimasta la matita – questo almeno è quello che ricordo. Mio padre decise di farmi un ritratto fotografico: sarebbe stato bello farlo mentre ero intento alla mia attività principale – disegnare – ma in mancanza di carta potevo solo pensare al disegno da fare, sedendomi su un muretto e abbandonando per un attimo la matita al mio fianco. La foto mi ritrae in un momento di pura immaginazione, di meditazione sul disegno in base al desiderio e all’impossibilità del farlo. La matita al mio fianco è la pura concettualizzazione di questa fattualità in sospensione malgrado la volontà. Tutto ciò è puramente casuale, non c’è alcuna costruzione a priori da parte di mio padre o tantomeno mia, alcuna strategia di messa in scena; è successo così e basta, e d’altronde lo scopo di una foto non è forse cogliere l’attimi simili? Tu mi chiedi con chi avvenisse la telepatia di cui parla il titolo… se la mente del bambino vaga liberamente, se non ha sovrastrutture intellettuali, se è sufficientemente aperta, chissà, forse cerca la telepatia con qualche grande artista del passato, del presente del futuro… Che sia questa l’idea di “ispirazione”? Hai parlato tu di valore poetico… forse si può trovare anche in questa posa di un bambino che era anche un artista in erba.
MT – Ritengo quella foto una grande opera d’arte, casuale o non casuale, di forte contenuto concettuale ma anche e soprattutto poetico. Anzi direi che il risultato è sorprendente nonostante i minimi mezzi, o forse proprio per via dei minimi mezzi utilizzati. Vorrei solo capire meglio come nacque, tra te e tuo padre, l’idea di scattare la foto. Intendo proprio il momento in cui avete deciso di mettervi lì su quel muretto, assumere quella posa, scattare in quel preciso momento.
EC – Non posso ricordare tutti questi dettagli, ovvio! Ma c’è un’altra foto fatta quella mattina, una foto scattata poco prima di Disegno telepatico ma non presente in mostra, che può aiutare a capire il processo di cui mi chiedi. In questa foto inedita mio padre ha colto il momento in cui io e lui decidiamo il punto del muretto antistante il Palazzo di Giustizia in cui mi sederò con la matita al mio fianco: la matita infatti la tengo ancora in mano. Sembra proprio che io e mio padre ci stiamo dicendo “questo punto va bene per sedermi?”. Mi sembra significativo che mio padre abbia voluto fissare il momento della decisione del punto in cui fare la foto-ritratto definitiva, come a dare dignità espressiva anche a quel minimo processo mentale, a quella attenzione particolare che sta sempre dietro lo scattare una foto-ricordo al proprio figlioletto.
MT – Oh, vorrei proprio vedere questa foto inedita: da come la descrivi mi sembra già molto bella e significativa, e che possa essere affiancata o persino comporre una sequenza o un dittico fotografico con Disegno telepatico. Si può dire che in realtà la serie di fotografie sia composta di tredici foto, non dodici.
EC – Ma in mostra sono solo dodici; la foto che ho lasciato fuori era ridondante nei confronti di Disegno telepatico, che è stata scattata solo un paio di minuti dopo. Non volevo comporre sequenze con caratteristiche di narrazione sequenziale. E poi il tredici porta sfiga!


MT – Una cosa che ho notato sia in Riso e pianto è canto che in Disegno telepatico e in Bambino-clessidra è il fatto che tu appaia in primo piano ma fuori fuoco. È casuale questa sfocatura del soggetto?
EC – Penso sia un fatto casuale dovuto all’inesperienza di mio padre o alle limitate capacità della macchina fotografica. La Ferrania Ibis non aveva l’autofocus. Però qualcuno pensa che sia meglio così: il soggetto è comunque ben visibile e si crea una certa profondità di campo rispetto gli sfondi. Gli sfondi hanno importanza anche perché si tratta di luoghi oggi spariti o assai diversi rispetto agli anni Sessanta.
MT – Sono d’accordo, e inoltre penso che quella leggera sfocatura di te bambino doni un maggiore valore poetico alla tua figura: appari come un artista in erba che ancora non ha messo a fuoco il suo ruolo nel mondo.
EC – Bello, mi piace.
MT – Vedi che alla fine stiamo trovando una sintonia?
EC – L’arte può servire anche a questo.
MT – Poi mi affascinano tutti quei piccoli dettagli che appaiono casualmente sullo sfondo: i passanti che entrano nell’inquadratura e che si percepiscono solo di sguincio (chissà che sarà stata la loro storia, o se piacerebbe loro ritrovarsi all’interno di un’opera d’arte contemporanea a distanza di tempo e loro malgrado)… Poi si notano le automobili di modelli oggi dimenticati o quasi inidentificabili…
EC – Tutte queste foto hanno sfondi abbastanza sobri ma non privi di interessanti dettagli.
MT – Direi che hanno gli sfondi giusti per una foto concettuale. Mi piacciono molto anche le foto che hai intitolato Il disegno imbronciato e Sguardo di un disegno, entrambe del 1966.
EC – Tutte scattate da mio padre.
MT – Come sai, conoscevo bene tuo padre. Ho sempre pensato che avesse una certa stima di me. Però mi sembra di non averti mai sentito parlare pubblicamente di lui, fino a oggi.
EC – Forse no, non ne ho mai parlato. Ci sarà una ragione – o forse più di una, magari in contrasto tra di loro… troppo in contrasto per poterne discutere adesso con te. Ma la mostra di Roma a Raccolta Multimedia, con tutte quelle foto scattate da lui, potrebbe essere il migliore omaggio che io possa fargli a un anno dalla sua morte. Com’è quel vecchio cliché? “una foto vale mille parole”.
MT – Vorrei analizzare più a fondo le foto intitolate Il Disegno imbronciato e Sguardo di un disegno. Sono immagini che probabilmente illustrano bene ciò che dicevi prima, cioè che da bambino pensavi che disegnare fosse il gioco più bello del mondo e ti portavi sempre dietro carta e matita.
EC – È talmente vero che in quelle due foto c’è una identificazione tra me e i miei disegni. Nel Disegno imbronciato ho un’espressione imbronciata e anche il disegno che stringo al petto – direi gelosamente, o forse come una corazza, quindi con atteggiamento difensivo – ha qualcosa di imbronciato: quel disegno è sopravvissuto nel tempo e lo conservo ancora; è di sicuro più astratto che figurativo, lo definirei “contorto” e in effetti esprime uno stato d’animo imbronciato, insoddisfatto, scontroso… o semplicemente le bizze di un bambino.
MT – Che sono la stessa cosa.

EC – Con Sguardo di un disegno è lo stesso: il disegno sul foglio vi è un piccolo occhio attraverso cui l’artista in erba osserva il mondo. Un piccolo disegno di un occhietto al margine del foglio può già essere un’opera compiuta. O forse tutto quanto era uno sketch orchestrato da mio padre.
MT – Uno sketch comico? Non credo. Mi sembra tutto molto spontaneo nella foto, a cominciare dal tuo gesto col foglio, con la matita sempre presente al tuo fianco, per finire con la posa delle persone che lo scatto ha colto di sfuggita, nello sfondo della spiaggia che direi del Poetto, a Cagliari. Tutto ha la perfezione della casualità.
EC – Bene.
MT – Mi viene in mente di definire questa tua serie di opere fotografiche “baby performance art”, perché queste tue pose da bambino, casuali o meno, ma sempre in stretta relazione o addirittura identificazione con i disegni che producevi, esprimono già qualcosa di molto vicino alle foto di azioni performative che iniziavano a proliferare nell’ambiente dell’arte degli anni Sessanta.
EC – Male.
MT – Male??
EC – Nel senso che non condivido ciò che affermi. Sai che non amo il termine performance perché implica una esibizione di sé compiaciuta e narcisistica davanti a un pubblico, laddove io ritengo che l’arte debba portare l’artista alla dimenticanza di sé. Esiste comunque un filone della Body art che tengo in gran conto perché implica un narcisismo di tipo negativo, autodistruttivo, quindi ancora una volta obliante del sé. Ma non credo che si possa parlare certo di autodistruzione in quelle mie foto infantili. Non ancora.
MT – Non ti piace proprio la definizione “baby performance art”?
EC – Non impedisco che tu la usi. Non abusarne, comunque. Sarebbe un child abuse.

MT – Una delle due foto a colori in mostra si intitola Il gatto al sole o all’ombra, ed è stata scattata nel 1967. Qui il disegno viene fatto su un muro e non sulla carta. E sembra fatto a carboncino.
EC – Infatti nella foto tengo ancora il pezzo di carboncino nella mano destra. Il disegno del gatto è stato ispirato dal pupazzo che tengo nell’altra mano. Anche oggi il gatto è il mio animale preferito e convivo con molti di loro che vanno e vengono nel mio giardino qui a Roma, in cerca di cibo, sole e ombra. Com’è quell’altro vecchio cliché? “Roma è la città dei gatti”.
MT – Il gatto del ’67 non aveva bisogno di cibo perché era di pezza. Questo tuo disegno sul muro mi sembra quasi un gesto di ribellione: non si pasticciano i muri delle case borghesi.
EC – Forse era un gesto di sperimentazione.
MT – Senza contare che ti sei anche sporcato il maglioncino! La tua espressione, molto buffa, sembra quella un po’ indignata di un bambino che venga rimproverato ingiustamente da un adulto, ed è bello che la foto colga proprio questo momento piuttosto che un’altra posa più convenzionale.
EC – Ho avuto critiche peggiori da adulto.
MT – Ma chi è quell’altro personaggio che sembra stringere la zampa al gatto?
EC – Non ricordo chi rappresentasse quello scarabocchio. Forse era un autoritratto. Da bambino ero piuttosto propenso a vedere me stesso come sgorbio.
MT – Da adulto hai usato spesso il carboncino per i tuoi disegni, e hai prodotto opere di dimensioni ambientali, grandi quanto una parete. Era tutto già presente in quella foto del 1967.
EC – È la rivincita del giovane artista incompreso! Hahaha!
MT – Altro vecchio cliché…
EC – C’è un enorme repertorio di stereotipi a cui attingere per interviste tipo… quelle che conduci tu!
MT – Gentile, grazie! Gli anni Sessanta si concludono, nella tua serie di foto, con un’immagine sempre del 1967, intitolata Il ruolo dell’artista. E guarda caso si tratta proprio di un cliché: il cliché della foto del bambino in costume di carnevale. Correggimi se sbaglio!
EC – Il soggetto è esatto.
MT – E allora, mi sembra che in quella foto ci sia la compresenza del cliché che ho appena detto, ma anche la sua contraddizione: la tua espressione infatti sembra l’esatto opposto rispetto a cosa ci si aspetterebbe da un bambino durante una festa in maschera, cioè che si diverta. Nel tuo caso si potrebbe forse parlare di espressione dubbiosa, persino desolata, e il costumino colorato da pierrot che indossi esaspera questo contrasto donando al tutto un alone quasi tragico, in senso beckettiano.
EC – Mai piaciute le feste.
MT – E poi c’è quel titolo, che tu hai messo appunto molti anni dopo lo scatto: Il ruolo dell’artista. Suggerisce una riflessione disincantata e scettica su come la società veda la figura dell’artista: come un pagliaccio che deve divertire gli altri anche a scapito di se stesso, della sua dignità. L’interpretazione è mia, ma sono sicura che non sono molto lontana dalle tue intenzioni. L’artista come figura isolata e non-sociale, peraltro: il Pierrot della foto appare solo al centro della stanza, circondato da un alone di luce come su un palcoscenico ma senza alcun pubblico attorno che lo acclami.
EC – Non è che ciò accada con tutti gli artisti: alcuni hanno un pubblico adorante al loro seguito. Ed è allora che nascono i veri problemi.
MT – E poi noto il piccolo dettaglio del rotolo di fogli che tieni in mano nella foto. Si tratta dei soliti disegni che eseguivi in ogni occasione da bambino?
EC – Sì certo, altrimenti che ruolo dell’artista sarebbe?
MT – Trovo Il ruolo dell’artista un’opera strepitosa, sia come foto d’epoca in sé, così tipica come impostazione ma al tempo stesso “deviante” rispetto al cliché grazie alla tua espressione fuori contesto. Ma soprattutto strepitosa vista nell’ottica che tu gli hai dato aggiungendo quel titolo e portandola in mostra.
EC – Se vuoi fare una foto che piaccia, mettici del rosso.

MT – Poi la serie fotografica in mostra passa agli anni ’70, e troviamo una fotografia di te con altri ragazzini – credo membri della tua famiglia – che è stata scattata nel 1974. Il titolo, sempre messo da te nel 1983, è Disegni in pectore. In quella foto hai undici anni o giù di lì. Questa foto è in bianco e nero. E per la seconda volta vi appare un interno borghese.
EC – E dalli con ‘sto “borghese”. È un termine che oggi non significa più nulla. Persino gli operai dell’Ilva di Taranto sono dei piccolo-borghesi.
MT – Anche in quella foto trovo molto buffa la tua espressione.
EC – I bambini sono buffi, Marzia. Sono anche teneri, e tutto il resto. L’intervista sta scendendo di livello.
MT – Trovo quella fotografia bellissima, e anche tutti voi bambini, e non avevo intenzione di abbassare il livello dell’analisi profonda che la foto merita sia in quanto rappresentazione di un momento di vita vissuta sia come opera d’arte. È sempre tuo padre che ha scattato la foto?
EC – È una delle tre foto della serie in mostra non scattate da mio padre. È stata scattata dalla sorella di mio padre: c’è quindi uno “spostamento semantico”.
MT – Penso che il nucleo della foto siano le magliette, la camicia e la canottiera che tu e altri tre bambini avete indosso nella foto: vi si trovano infatti dei disegni fatti a mano presumibilmente da te, proprio sul davanti delle magliette, quindi sul petto. Il titolo In Pectore viene da questo?
EC – Beh, sai, una volta che il disegno ha attraversato i reami della telepatia è stato libero di spostarsi dalla superficie del foglio di carta al muro, alle magliette e da quel momento in poi a tutte le superfici possibili dell’intero mondo. Sì, il titolo Disegni in pectore si riferisce a quello che tu dici: avevo avuto l’idea di creare delle magliette e camicie personalizzate per me e per i miei cuginetti, che amavano molto i miei disegni e passavano ore ad ammirarli. Così ci eravamo procurati alcune magliette o canottierine bianche sulla cui superficie avevo eseguito a mano dei disegni a pennarello o con vernici per stoffe. Erano tutti molto contenti di questi bei regali da parte mia. I disegni stavano sul davanti delle magliette, cioè sul petto di noi bambini.
MT – L’espressione latina in pectore però ha anche un altro significato: “nel segreto del cuore”. Al di là dell’ambito ecclesiastico in cui nacque, in senso generale può anche implicare qualcosa che non si riesce a dichiarare apertamente, qualcosa di profondo che si riesce a rivelare solo in parte. Forse quelle tue magliette, quei disegni, rivelano qualcosa di te, qualcosa di segreto che tu stesso intuisci confusamente ma non riesci a definire in altro modo, men che meno a dichiarare agli altri.
EC – Rivelano che ero un bravo stilista. Gli stilisti non fanno coming out nemmeno oggi, figuriamoci allora.
MT – Io spero che quelle magliette e canottiere esistano ancora da qualche parte. Io le vedrei senz’altro esposte in mostra oggi.
EC – Bisognerebbe chiedere ai miei cugini. Io ho distrutto la mia perché la usavo per giocare, per arrampicarmi sugli alberi, buttarmi in terra, eccetera.
MT – Andando per ordine cronologico, troviamo in mostra un’immagine di te ragazzino in un ambiente da strada collinare, in una zona quasi boschiva. Sei sdraiato su un rialzo di roccia ai bordi della strada, con un foglio di carta al tuo fianco. il titolo della foto è Il Disegno sulla vetta, ed è stata scattata nel 1975, quindi quando tu dovevi avere circa 12 anni. Dove è stata scattata la foto?
EC – La foto è stata scattata in Toscana, dov’ero in viaggio con mio padre. Non ricordo in che zona esattamente. Immagino che la strada che si vede portasse a una cittadina di interesse storico-artistico che avevamo l’intenzione di visitare, o più probabilmente stavamo tornando a Firenze da quella cittadina, perché avevamo più tempo per fermarci durante il tragitto di ritorno che all’andata. Comunque durante il percorso, in macchina, notammo questo strano rialzo di roccia al bordo strada, come una montagnetta in miniatura, e decidemmo di scattare una foto in quel punto così appartato, molto suggestivo. Dal momento che portavo sempre con me materiale per il disegno, anche nella foto compare uno dei miei disegni fatti quel giorno stesso.
MT – La vetta del titolo è da intendersi come la sommità di quella specie di protuberanza che tu chiami montagna in miniatura?
EC – Quale artista non vuole raggiungere la vetta?? (ecco un altro cliché preconfezionato).
MT – Anche il disegno su quel foglio è sopravvissuto nel tempo?
EC – Sì, l’ho venduto e quindi si trova in una collezione privata. Lo stesso collezionista ha comprato anche la foto del Disegno sulla vetta.
MT – Ma aveva in qualche odo a che fare con il concetto di “vetta”, quel disegno?
EC – Mmh… non direi che avesse a che fare con vette e montagne, piuttosto con il mare. Era un disegno intitolato “Il compleanno”, che aveva anche a che fare col mio compiere gli anni, dodici anni… Un disegno molto elaborato, in stile fumettistico, realizzato coi pennarelli; qualcosa di surreale, una composizione talmente bislacca che non ricordo da cosa fosse originata in realtà, a parte la ricorrenza del compleanno. Di sicuro c’era una forte suggestione delle architetture medioevali viste nelle città d’arte toscane con mio padre, durante quel viaggio.
MT – Insomma, disegno e fotografia sono due cose del tutto indipendenti, in questo caso.
EC – Assolutamente indipendenti. Sono collegati dalla casualità: un incontro provocato dal succedersi degli eventi (il notare, di passaggio, una strana protuberanza rocciosa a lato strada) e dell’ispirazione del momento (un disegno in via di realizzazione o appena terminato). Ma vanno benissimo assieme proprio per la loro indipendenza. Però, sì, sulla “vetta” quel giorno poteva capitarci un disegno qualsiasi.
MT – Cosa intendi con “un disegno molto elaborato”? E quando facevi questi disegni che ti portavi dietro?
EC – Avevo una cartellina con dei fogli da disegno che portavo con me durante i viaggi con mio padre in giro per la Toscana. Alle volte la cartellina rimaneva in macchina mentre noi visitavamo le varie località storiche, le città d’arte; altre volte portavo con me la cartellina e approfittavo delle pause di viaggio per schizzare qualche disegno. Per esempio, tra la visita a una città e l’altra, ci capitava di fermarci a mangiare in una trattoria o in un autogrill; mio padre non parlava molto e mi lasciava libero di disegnare indisturbato sul tavolo del nostro desinare in quei momenti dedicati non al viaggio ma alla ristorazione. Alcuni di quei disegni erano in effetti piuttosto elaborati perché vi dedicavo molto tempo e attenzione, ed erano eseguiti non tutti in una volta ma potevano tenermi impegnato per giorni.

MT – Ti ispiravano i luoghi che visitavi?
EC – Penso proprio di sì: i musei, le cattedrali, le torri di San Gimignano, eccetera. Ma tutto fortemente filtrato da uno sguardo moderno, dinamico, ironico, cartoonistico: niente “copie dal vero”. Era già postmodernismo puro.
MT – Ah, ah! Insomma, era una vera e propria abitudine fissa, quella di portarti dietro una cartellina coi disegni…
EC – Il ’75, l’anno della foto Disegno sulla vetta, è stato l’ultimo in cui ho portato avanti la pratica di portare con me una cartella coi fogli da disegno, matite e pennarelli, non sempre ma in parecchie occasioni, ogni volta che ne avessi voglia – cioè quasi sempre. L’anno successivo sono entrato al liceo artistico, a 13 anni, e quindi dal 1976 in poi le cose sono cambiate, nel mio rapporto col disegno: gli insegnanti non hanno fatto altro che ingabbiare la mia creatività e libertà, imponendomi regole e regolette e di fatto privandomi progressivamente della spontaneità nel disegnare che avevo da bambino.
MT – Ah, è così che è andata? Forse dipendeva dal livello degli insegnanti…
EC – No, questo è il risultato di ogni “scuola d’arte” indipendentemente dal livello dei docenti.
MT – Mi dispiace di sentire questo… Sai, al di là di tutto, parlando con te si ha comunque l’impressione di una vita perennemente centrata sulla creatività, sull’arte, fin dalla prima infanzia. A partire dai disegni del bambino, già di un livello qualitativo superiore alla media, fino allo sviluppo di un’inventiva trasbordante che parte dal gioco infantile e arriva a permeare, negli anni, qualsiasi altro gesto quotidiano. Parlo della capacità di trasformare ogni piccola vicenda dell’esistenza in un’occasione da cui scaturisce qualcosa di creativo: un’idea particolare, uno sguardo trasversale che trasforma la realtà – persino nei suoi più anonimi e banali aspetti – in una messa in scena della Bellezza, in riflessione sul mistero e ambivalenza delle cose.
EC – Non è per tutti così?
MT – No, avviene solo con i veri artisti. Comunque, dopo Disegno sulla vetta passano pochi anni e nel 1978 troviamo un’altra foto, che adesso hai selezionato e ri-intitolato per la mostra. È un’immagine assai semplice: ci sei solo tu ragazzino capellone fotografato a mezzo busto con alle spalle un dipinto murale, si presume eseguito da te. Il titolo della foto recita: Muro aggredito dai quadri.
EC – Sì, ma la foto non è stata ri-intitolata, come dici tu. Il titolo Muro aggredito dai quadri è sì il titolo della foto, ma era anche quello del murale che dipinsi nel ’78, oggi scomparso. Non è poi troppo bizzarro intitolare la foto come l’opera che è rappresentata sullo sfondo.
MT – Noto un interessante e divertente slittamento semantico perché qui non abbiamo più i quadri attaccati al muro, come convenzionalmente si intende, ma il muro attaccato dai quadri, con tutto ciò che ne consegue: entra in campo l’elemento “violenza”, estraneo al concetto dell’esporre dei dipinti, per cui l’intera scena appare in un’ottica di estremo paradosso che ribalta e mette in discussione gli elementi fondanti del fare una mostra. Nel tuo dipinto murale, i quadri si incuneano sulla superficie del muro ferendolo coi loro spigoli acuminati, e persino i quadri tondi lo attaccano e vi si conficcano come fossero lame rotanti. Da questi scontri sgorga addirittura del sangue.
EC – Alcuni muri sono belli in sé, vuoti, portatori di una loro storia fatta di strati di pittura per muro, graffi, scrostature, piccole macchie organiche depositate nel tempo. Piantarci un chiodo per poi appenderci un quadro è già fare violenza a questo delicato universo visivo.
MT – La foto ha un valore di documento di come il tuo fare artistico abbia cercato sempre modalità di uscire dagli spazi convenzionali del foglio o della tela. Documenta bene anche come tu apparivi in quel particolare momento di crescita fisica, intellettuale e creativa. E inoltre ritengo che la foto stia benissimo nel contesto della serie in mostra a Roma, anche per via del tema del sangue che sembra fluire dal muro ferito dall’aggressività tagliente dei quadri. È un tema che ci porta direttamente alla foto successiva, l’ultima della serie, che però a me appare assai più drastica e inquietante.
EC – Ma no, dai…
MT – Osservando come appari nella foto con quei capelli lunghi e un aspetto decisamente androgino, anzi direi femmineo: è molto facile scambiarti per una ragazza. Un look che potrei chiamare glam, o glam-punk, ma non oso perché non sono sicura che tu saresti d’accordo…
EC – Vai pure avanti col discorso…
MT – Insomma, dicevo, non posso che ricollegare il dettaglio dei capelli lunghi con la serie di disegni 250 Mele Marce che stavi eseguendo in quel periodo.
EC – Il periodo era proprio quello di 250 Mele Marce.
MT – Questo è molto interessante. La serie 250 Mele Marce prevedeva l’esecuzione di un autoritratto al giorno eseguito a carboncino e pastello su carta da pacchi o su oggetti trovati per strada, di solito rottami metallici, tavolette di legno o scarti urbani del genere. La serie di autoritratti durava un intero anno ed era collegata a una sorta di “performance passiva” basata sul lasciarsi crescere i capelli, e sarebbe finita infatti un certo giorno in cui i capelli sarebbero stati tagliati. L’ultimo autoritratto della serie ti mostra infatti coi capelli cortissimi.
EC – Sì, eseguivo un autoritratto al giorno per un anno, tenendo fuori le feste comandate e il giorno del mio compleanno. Nel complesso: 250 giorni. Cioè 250 autoritratti. Cioè 250 mele marce.
MT – Immagino che la mela marcia originale fosse da intendersi come l’artista in persona: l’adolescente con problematiche introspettive tutte particolari, che faceva confluire nell’arte senza soluzione di continuità. La cosa che mi interessa è che con la foto Muro aggredito dai quadri risulta evidente che la tua attività in quel 1978 non si fermava alla serie di autoritratti 250 mele marce, ma producevi opere di ben altra fattura.
EC – Ripensando alla pittura murale della foto, mi viene in mente quante suggestioni contenga del punk di quel periodo. Penso alle spille da balia conficcate nella carne, ai tagli con le lamette; quel tipo di attitudine.
MT – Chi ha scattato Muro aggredito dai quadri?
EC – La foto è stata scattata da un amico che ora… non c’è più. Ha scelto lui di “andarsene”. Vorrei non parlarne.
MT – Ho capito tutto, scusa. Nel complesso questa foto del 1978 mi ricorda un’altra serie di tue immagini fotografiche degli anni ’80, intitolata Erotic Wall Drawings, in cui tu appari davanti a un muro graffittato con disegni molto strani.
EC – La serie Erotic Wall Drawings è del 1988, cioè 10 anni dopo la foto Muro aggredito dai quadri. In entrambi i casi queste foto hanno una doppia valenza: sono opere fotografiche a sé, e documentano delle opere murali che sono andate perse.
MT – Mi sembra di ricordare che i disegni murali che compaiono nella serie Erotic Wall Drawings siano ispirati ai graffiti osceni dei bagni pubblici, ma riveduti e corretti in un’ottica quasi surreale, di metamorfosi oniriche tra i vari segni che costituivano il tuo lavoro artistico dell’epoca fino ad annullare ogni riferimento all’ispirazione originale: alla fine viene fuori una sorta di scarabocchi da cesso come li potrebbe fare, che so, un maestro tipo Leonardo da Vinci.
EC – Ah ah, molto lusinghiero.
MT – Torniamo alla mostra di Roma. L’ultima foto in mostra in ordine di datazione è stata scattata nel 1979. Si intitola Bagno di sangue; questa, così come la precedente, mi sembrano diverse dalle prime della serie, innanzitutto perché tu appari ormai non più come un bambino ma come un ragazzo semi-adulto di 15 o 16 anni. In Bagno di sangue inoltre non appare alcun disegno. Ho notato subito la colorazione alterata dal tempo che queste ultime stampe hanno assunto: una specie di viraggio o scoloritura rossiccia molto anni Settanta, molto vintage. Ma a cosa che mi più mi ha colpito è il tuo aspetto efebico in Bagno di sangue, la tua espressione angelica…
EC – Devil in disguise…
MT – Mi viene da riflettere sul perché tu abbia scelto quella postazione alla finestra. Sembra che tu stia su un piano abbastanza alto.
EC – Attrazione per l’abisso??
MT – Forse è un surrogato della “vetta” che dicevi che ogni artista vuole raggiungere.
EC – Andiamo avanti…
MT – Impossibile, poi, non notare il dettaglio della tendina della finestra, un pochettino kitsch con tutti quei fiorellini, che sembra messa lì apposta per creare straniamento con l’idea del sangue che dà il titolo alla foto.
EC – E cosa c’è di più bello di un fiore?? Sarà meglio dirigersi verso la fine di quest’intervista, perché qui stiamo raschiando il fondo del barile dei cliché.
MT – …e poi c’è il tuo atteggiamento complessivo che emana serenità, in contrasto con il rosso del “sangue” che macchia quella specie di sudario che indossi nella foto. È come se il sangue del murale, che sgorgava dal muro in seguito all’aggressione dei quadri, si sia sia trasferito qui direttamente sul corpo dell’artista. È uno straniamento totale, quella foto.
EC – Hai detto che la foto sembra diversa da tutte le altre. Ma se fosse uguale alle altre che senso avrebbe avuto metterla in mostra? Secondo me è diversa ma per molti versi c’è una continuità.
MT – Ti ho detto il perché mi sembra diversa: non appari più come un bambino e non hai carta e matita o magliette con disegni accanto a te.
EC – Quanto mi irrita parlare con la cornetta di un telefono…
MT – Io credo che esista un rapporto più evidente tra la fotografia Bagno di sangue e la serie di disegni fatti col tuo vero sangue intitolata Flussi e riflussi stoici, che è datata 1979, stesso anno della foto.
EC – Sì certo, foto e disegni sono contigui come ispirazione e data di realizzazione, ma come sai non erano presenti nella mostra a Raccolta Multimedia. La differenza principale è che i disegni sono eseguiti usando autentico sangue: mio – prelevato tramite piccoli tagli sulla pelle – e di animali, prelevato da tranci di macelleria. Oltre che col sangue, i disegni di quella serie sono eseguiti usando “tinture” rossastre ottenute col vino e altri cibi a base rossa tipo pomodoro, eccetera. Il sangue di Bagno di sangue è invece vernice rossa simil-sangue: altrimenti sarebbe occorsa una quantità di sangue vero molto copiosa.

MT – Ma vorrei che tu mi parlassi della continuità che tu vedi tra Bagno di sangue e le prime foto della serie.
EC – Penso che in parte tu abbia ragione quando dici che la foto è diversa dalla altre: la foto parla anche di una differenza che è poi ciò che marca la fine di un’epoca, il concludersi del decennio dei Settanta. Un forte mutamento storico l’abbiamo percepito tutti in quel momento. Ho sostenuto in diverse occasioni che il Novecento finisca attorno al 1980, col fiorire di una serie di eventi tra cui la mostra della Biennale Architettura di Venezia, diretta da Aldo Rossi, e l’apice del dibattito culturale internazionale – iniziato nei primi anni ’70 – attorno all’avvento dell’architettura postindustriale. È il momento in cui il postmoderno entra nella vulgata giovanile, nella quotidianità degli adolescenti, dei ventenni. Ma stiamo uscendo dal seminato: torniamo a noi.
MT – No, ma continua pure; non ti ho mai sentito così appassionato durante quest’intervista.
EC – Vedi, in realtà all’inizio non volevo nemmeno portare in mostra Muro aggredito dai quadri e Bagno di sangue in quanto potevano apparire al pubblico – non a me – troppo fuori contesto perché “non più infantili”, quindi appartenenti a un’altra storia, ma gli organizzatori hanno insistito perché le portassi. Loro vedevano in quelle foto, soprattutto in Bagno di sangue, un forte riferimento agli “anni di piombo”, al sangue che scorreva nelle strade italiane per via di attentati, gambizzazioni, bombe e sparatorie. Ci vedevano il terrorismo, insomma. Io non identifico certo gli anni Settanta col terrorismo; piuttosto con fermenti culturali molto più pregnanti. Ma anche nelle prime foto abbiamo visto come una fotografia possa contenere significati estranei alle intenzioni dello stesso autore…
MT – Eppure quegli erano gli anni in cui vivevi, ed è difficile pensare che non tu abbiano in qualche modo influenzato.
EC – È possibilissimo… ricordo molto bene quel periodo e di come, tornando a casa dal liceo, trovassi ad attendermi le notizie di attentati e morti al telegiornale. Ricordo la mattina del rapimento Moro, di come appresi la notizia in classe, al liceo, comunicataci da un compagno di classe durante una lezione di disegno. Non è escluso trovare qualcosa di tutto ciò in Muro aggredito dai quadri e in Bagno di sangue, ma, parliamoci chiaro, puoi trovarci di tutto a questo punto: l’iconografia martirologica cristiana e altri retaggi di quel genere. Allora, il discorso è un altro: l’uso del sangue e della messa in scena della violenza, fino all’autolesionismo, era già pratica nota delle correnti artistiche legate alla body art e alla performance art, e io ero pienamente consapevole di questo. Parlo di Gina Pane, Chris Burden, Nitsch, eccetera; la lista è lunga. Tutto sta nello stabilire se l’arte debba avere un debito nei confronti dei fatti sociali della propria epoca – esserne l’illustrazione, per così dire – o se debba invece rendere conto solo all’arte. Io propendo per la seconda ipotesi: è solo sul piano esclusivo dell’arte che si può capire se una nuova opera fornisce un apporto inedito alla cultura o è da considerarsi solo un cascame consunto dalla storia.
MT – Insomma, semplificando: come ti venne l’idea di quelle foto? E quale è la loro collocazione all’interno di quella serie di foto da bambino?
EC – Insomma, semplificando potrei dirti che dal punto di vista cromatico il sudario rosso di Bagno di sangue rimanda al costume rosso da Pierrot di Il ruolo dell’artista, e che anche in Muro aggredito dai quadri indosso un maglione rosso. Se ci metti del rosso, non sbagli la foto. Ma semplificando ancora di più potrei dirti che il succo del discorso attorno a Muro aggredito dai quadri e Bagno di sangue è molto più ovvio, ed è anche il vero motivo per cui alla ho infine deciso di metterle in mostra: durante l’ultimo scorcio degli anni ’70 l’artista in erba è giunto a maturazione, abbandonando l’infanzia ed entrando in una fase differente, seppur collegata in molti modi col passato. La continuità è quella di un individuo che vive liberamente la sua creatività nelle varie fasi dell’esistenza. Fine del discorso.
MT – Io credo che il discorso attorno a quella foto continui: è un’immagine più complessa di ciò che sembra a prima vista e hai fatto benissimo a portarla in mostra, anche perché penso che sia stupenda. Si potrebbe innanzitutto affermare che dopo quel momento, dopo il ’79, con la fine degli anni Settanta e l’inizio del nuovo decennio, avviene qualcos’altro oltre al passaggio dell’artista all’età adulta. Per dirne una: le opere fotografiche che realizzerai dal 1980 in poi verranno pensate e create al di fuori dell’ambiente familiare, con quelle protezioni, consuetudini e sicurezze che ne costituivano il “rivestimento” sociale, per così dire. E anche al di fuori di quella “immacolata concezione”, di quella nascita spontanea e pura priva di sovrastrutture intellettuali, priva di strategie artistiche ma più vicina alle pratiche del gioco, che lo stare in seno alla famiglia ti poteva fornire. Anzi, inizia una vera e propria critica radicale da parte tua dell’istituzione della famiglia, come hai tante volte dichiarato.
EC – Ah sì? L’ho proprio dichiarato? Ma guarda un po’…
MT – Eppure, al tempo stesso questa serie di fotografie anni ’60-70 esposte a Roma dimostrano qualcosa di diverso dalla tua critica dell’istituzione familiare, per due motivi: ci mostrano scorci dell’ambiente familiare in cui sei nato, che sembra essere stato affettuoso e piuttosto protettivo nei tuoi confronti, lasciandoti inoltre libero di manifestare la tua creatività infantile e anzi stimolandoti a esplorare sempre nuove modalità espressive.
EC – Mi è capitato di esprimere un’opinione contro la famiglia patriarcale. È sempre stato il patriarcato e il maschilismo in generale l’obbiettivo delle mie critiche. Sappi che contro i miei parenti non ho mai avuto nulla da dire.
MT – E loro, cos’hanno avuto da dire su di te?
EC – La mia famiglia dapprima ha appoggiato appieno la mia creatività infantile; solo nel passaggio all’età adulta sono nate incomprensioni e perplessità nei confronti del mio lavoro. Com’è giusto che sia. Chiunque – me compreso, se fossi stato un genitore – avrebbe sviluppato come minimo ansie e diffidenza nel vedere un ragazzo fare ciò che facevo io, e per di più chiamandolo “arte”. Ma, appunto, andava bene così. In famiglia c’era in ogni caso un rispetto innato per la cultura pur non essendo una famiglia acculturata sul piano dell’arte contemporanea. Una volta superata la fase infantile non mi hanno appoggiato ma neanche ostacolato – per il semplice motivo che non mi lasciavo ostacolare da nessuno.
MT – Tutto sommato, è stato un percorso positivo, il tuo. Dentro e fuori la famiglia, intendo.
EC – Non è così semplice. In famiglia si verifica, in piccolo, un fenomeno che poi si ritrova nel mondo, su scala più ampia: finché si intende la pratica dell’arte contemporanea come gioco del bambino, come passatempo ludico di carattere innocuo, c’è interesse e attrazione, o perlomeno curiosità da parte di chi osserva tale fenomeno; nel momento in cui l’esercizio di questa pratica diventa “serio”, cioè arriva a coinvolgere l’artista adulto a un livello esistenziale più profondo, implicando un impegno di vita che va anche incontro a rischi di tipo economico, di immagine sociale, eccetera – forse potremmo chiamarlo un impegno di vita “più professionale” –, allora subentra il distacco, sorgono timori, nascono preoccupazioni e diffidenza. Ciò avviene su scala piccola – familiare – e grande – sociale, in qualsiasi ambiente mi sia trovato finora.
MT – Senti, ma non pensi che esista un’incredibile ricchezza attorno alle immagini fotografiche che superi persino quella contenuta nelle opere d’arte più tradizionali come dipinti e sculture? Stiamo parlando da tantissimo tempo dei contenuti e delle forme di questa tua serie di foto esposte a Roma, e sembra di vagare dentro un continuo e meraviglioso gioco di scatole cinesi da cui scaturisce una profusione di significati e rimandi culturali, storici, sociologici, simbolici, antropologici e filosofici. Mi sembra che ci si possa quasi perdere dentro questa complessità, tutta contenuta peraltro in una serie di dieci vecchie foto familiari con titoli aggiunti oggi da te.
EC – Sulle vere opere d’arte non ci dovrebbe essere necessità di disquisire troppo a lungo.
MT – Perché rinunciare all’analisi di questa complessità?
EC – Ma insomma, perché si pretende che l’arte debba sempre trasformarsi in qualcos’altro da sé? Quando ho messo in mostra quelle foto a Roma intendevo fare tutto tranne che sociologia, filosofia, antropologia o quant’altro di quello che hai detto. Se proprio dobbiamo continuare l’intervista torniamo ai materiali di cui è fatta l’arte, per favore. È sul piano dei materiali che si capisce se un’opera è valida, non sulle buone intenzioni dei contenuti.
MT – Perché, non abbiamo forse parlato dei materiali?
EC – Non ci capiamo. Stiamo parlando da un’ora di fotografie degli anni Sessanta e Settanta e non ti è mai venuto in mente di chiedermi se in mostra vi siano le stampe originali oppure degli ingrandimenti fatti apposta per l’occasione. Perché, sai, non è la stessa cosa. Nel caso siano ingrandimenti, perché l’artista ha scelto di non esporre gli originali? E perché ha scelto certe dimensioni piuttosto che altre? E che tipo di carta fotografica ha usato per riprodurre oggi le fotografie di tanto tempo fa? Ti sei mai posta questi problemi? Perché, vedi, non sono aspetti secondari, come non lo sono il fatto che le foto siano o non siano in cornice, siano o non siano sotto vetro, se l’eventuale vetro sia antiriflesso oppure no, eccetera.
MT – Eh, beh… i riflessi sul vetro sono fondamentali, come no…!
EC – E ancora: se le foto in mostra sono ingrandimenti, sono tratte dai negativi originali d’epoca o, avendo perduto o danneggiato quei negativi, l’artista è stato costretto a rifotografare le stampe anni ’60 e ’70 per avere un nuovo negativo e quindi portare in mostra fotografie di fotografie? E in questo passaggio, cosa si è perso dell’originale in termini di grana, di semitoni, di sfumature di colore? Cos’è svanito della sua patina del tempo, della sua “aura”? Capisci che queste sono le cose di cui è fatta l’arte, questi sono i problemi che l’artista si pone e le scelte che si ritrova a fare quando produce un lavoro per una mostra.
MT – Ci arriveremo, a questi punti. Per una questione di ordine di idee mi premeva parlare prima di aspetti non meno rilevanti.
EC – Quali sarebbero questi aspetti? Il rapporto dell’artista con la famiglia? La biografia dell’artista? Mettere il naso in questioni private e non inerenti l’opera, come l’appartenenza dell’artista alla borghesia o ad altra classe sociale, come se questi cliché determinassero le scelte espressive? Mi sembra un tipo di indagine mossa da curiosità che non riguardano l’arte ma il pettegolezzo, o al limite la sociologia.
MT – Non è così. Tutto influenza le scelte espressive. Si chiama formazione.
EC – Io mi sono formato sugli Uffizi, sui Musei vaticani e sul Beaubourg. Il tuo approccio è una deriva, credi a me. Per cui capisci come a volte nell’artista, in situazioni come questa qui con te, nasca l’esigenza di depistare questo tipo di approccio indagatore sul privato. A volte l’unico modo che un artista ha per sopravvivere, per non farsi tenere in pugno dai psicopoliziotti, dai criticoliziotti, è imbrogliarvi, gabbare la vostra credulità, barare, darvi una fregatura. Sai, ciò si è già verificato parecchie volte nella storia.
MT – È certamente possibile che si sia verificato. Non capisco a chi tu ti riferisca, però.
EC – I riferimenti abbondano.
MT – Dimmene almeno un paio.
EC – Per esempio Nico, la grande chanteuse che in un’intervista, mi pare con Nick Kent nel 1974 o giù di lì, afferma di essere stata una casalinga di Hannover finché non ha scoperto l’eroina, e da lì la sua vita è cambiata… ma io che l’ho conosciuta di persona posso dirti che non è mai stata né una casalinga né tantomeno ad Hannover. Per esempio Jean Genet, che infarcendo i suoi testi di dati autobiografici, altera o falsifica alcuni suoi dati relativi a infanzia e giovinezza, a iniziare da dettagli come il nome della madre e l’indirizzo della casa di Parigi in cui nacque – mi riferisco qui al Diario del ladro – e poi persegue nell’alterazione di fatti personali e vicende esistenziali in età adulta. E per quanto queste alterazioni letterarie non modifichino più di tanto il senso della sua storia personale almeno gli forniscono una minima possibilità di fuga dal microscopio indagatore di biografi che pretendono di essere più antropologi o sociologi che altro, proprio come te adesso! Cos’altro poteva fare Genet, bambino che già dalla prima adozione è stato subito sottoposto a classificazioni, giudizi, valutazioni, verbalizzazioni, schedature dalle quali dipendeva la sua libertà, la sua vita?
MT – Mi sembra che tu stia caricandomi di colpe e responsabilità che non mi appartengono. Inoltre, adesso sei tu a divagare troppo verso altri territori: storia della letteratura eccetera.
EC – No… tu me l’hai chiesto, io ti ho risposto!
MT – Sei liberissimo di fare tutte le digressioni che vuoi, mi va tutto benissimo soprattutto perché ti vedo molto… appassionato, finalmente. Anche esageratamente appassionato. Però adesso vorrei tornare al punto di partenza, e cioè al punto di passaggio, nella tua visione artistica, tra gli anni ’70 e il decennio successivo. Di fatto, dal 1980 in poi i contenuti dei tuoi lavori fotografici cambiano radicalmente, e abbiamo autoritratti fotografici in pose scioccanti, provocatorie, nell’atto di farsi orinare in faccia come in Idolatrina, o con tracce di sperma sul volto come in Disegno (Schizzo), o con te di fronte a una foresta distrutta da un incendio, o te con un capezzolo infilzato dallo spillone di un badge metallico, o tu col volto tumefatto in seguito a un’aggressione omofoba, o ancora la serie allucinante di te in bilico sul bordo di cornicioni e parapetti di edifici altissimi.
EC – Ho le vertigini solo a sentirti.
MT – Tu hai fatto quelle opere fotografiche, non io!
EC – Se è per questo, ne ho fatte di peggio, molto di peggio. Solo che evidentemente tu non le conosci. Le tue quotazioni come curatrice del mio catalogo generale stanno scendendo.
MT – Inoltre, dal 1980 in poi tu inizi a fare vere e proprie mostre dei tuoi lavori, fotografici e non, e persino a venderli, quindi cambia il punto di vista rispetto all’atto creativo: subentra un confronto non solo con questioni economiche, monetarie, ma anche con un pubblico da cui possono arrivare anche critiche feroci, e infatti presto si instaura una situazione di conflitto, di amore-odio, di attrazione-repulsione tra te, l’artista, e il sistema dell’arte, sia questo di provincia come nei primi anni, sia a livello nazionale come adesso. La serie fotografica del 1982 Il sistema dell’arte, con frotte di handicappati fisici fotografati mentre sfilano davanti al tuo quadro Marmo malato, ne è un esempio.
EC – Non erano frotte, e non erano tutti handicappati. Qualcuno aveva solo un braccio ingessato o una lussazione cervicale.
MT – Io aggiungerei che per quanto ti riguarda in quel crinale storico tra il 1979 e il 1980 avviene un passaggio già esemplificato da Marx quando scrive a proposito di John Milton: “Egli scrive Paradise Lost come un baco da seta tesse il suo bozzolo – cioè naturalmente, aggiungo io –; ma nel momento in cui lo vende al suo editore per cinque sterline diviene un trafficante in merci”. Ecco, anche nel tuo caso, in piccolo, avviene questa perdita di naturalezza. Il che non vuol dire perdita di qualità, beninteso. Però diventi uno stratega, un trafficante.
EC – È quel tuo in piccolo che mi offende, più che la possibile perdita di qualità.
MT – Non l’ho detto per sminuirti. Anzi, volevo inquadrare il tuo processo di crescita personale in una dialettica storico-filosofica più ampia.
EC – Avevo capito la buona intenzione, ma qui il problema è un altro. Non mi è chiara la tua “ermeneutica” di Marx: cosa intendi con “naturalmente”? Se parliamo di arte, il termine “arte” è la radice di artificio, non di naturalezza. E quella citazione si trova nel primo libro del Capitale, la conosco anch’io.
MT – Marx a proposito del baco da seta letteralmente parlava di “attuazione, messa in pratica della propria natura”. Si può compiere un gesto artistico con naturalezza. Nella foto Bagno di sangue avviene anche la frattura con un tuo comportamento abituale da bambino: accompagnarti ai tuoi disegni, eseguirne sempre, in ogni situazione, stringerli al corpo come nel Disegno imbronciato e addirittura indossarli come nei Disegni in pectore. Da qui il loro co-protagonismo fin dentro le fotografie. Ma dov’è finito il riferimento al disegno in Bagno di sangue?
EC – Il disegno dopotutto è presente anche in Bagno di sangue, ma sotto spoglie assai diverse. Anche in quella foto lo porto addosso, ma come un sudario di sangue, di tintura rossa. Questo, più che un segno a matita su carta, definirà la mia idea di disegno dal 1979 in avanti. Non so se la fase storica del terrorismo italiano possa essere il riferimento primario; di sicuro, come ho detto, il sangue era un elemento ben presente nell’arte degli anni Settanta, nella Body art austriaca, francese, americana, giapponese…
MT – Non italiana, però.
EC – No.
MT – E infatti circa otto anni dopo Bagno di sangue tu andrai in Austria a conoscere i rappresentanti di quella corrente della Body art, e scriverai tra il 1987 e il 1988 una tesi di laurea che parla chiaramente anche del sangue nell’arte, da Kokoschka a Brus.
EC – Brava, ritieniti promossa come archivista ufficiale della mia opera.
MT – Richiederò uno stipendio adeguato al mio valore.
EC – Certo, tanto ti pagherò in opere.
MT – O in magliette.
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