Maestrale

Enrico Corte in conversazione con Piera Mossa per la trasmissione televisiva

Maestrale

RAI Radiotelevisione italiana, sede regionale Sardegna, ottobre 1988
Enrico Corte
Orpheus, 1988-1989. Photo retouchée. Giclée print. 88,3 x 130 cm.

Piera Mossa: Enrico Corte, tu sei una giovane promessa dell’arte contemporanea italiana; vuoi parlarci della tua esperienza di “scenografo al computer” per la serie di grafiche realizzate per Maestrale?

Enrico Corte: Penso di essere stato selezionato dalla redazione del programma per via delle mostre che ho fatto nel corso degli anni. Mi è stato chiesto di realizzare una serie di tavole grafiche mediante l’uso di alcuni software di elaborazione digitale; lo scopo di queste tavole, o meglio di questi file grafici, era fungere da “scenografie”, cioè sfondi su cui sarebbero state sovrimpresse in chroma key le riprese dei vari ospiti intervistati durante le varie puntate di Maestrale. In pratica, durante le interviste televisive le figure degli ospiti venivano scontornate elettronicamente e poste al centro delle mie immagini che stavano a pieno schermo sullo sfondo. Questo mi ha anche permesso di “giocare” con le figure dei singoli ospiti, che in parte erano persone che conosco e frequento da tempo. Per esempio, ho creato un mio autoritratto grafico dall’espressione piuttosto minacciosa con lo sguardo rivolto verso il punto centrale in cui sarebbe stata sovrimpressa la persona intervistata (in quel caso una critica d’arte), in modo che il mio enorme faccione a pieno schermo, pur stando sullo sfondo, sarebbe stata una sorta di presenza incombente e piuttosto minacciosa nei confronti dell’ospite. In altri casi ho avuto un atteggiamento più libero per cui le tavole che realizzato hanno un carattere non figurativo o basato su combinazioni cromatiche astratte, ma la bellezza di quest’esperienza è stata il poter sperimentare per tutto il tempo necessario con le nuove possibilità di creazione e elaborazione delle immagini offerte dal computer, ed essere addirittura pagato per farlo. 

PM: Ma tu trovi che ci sia differenza tra realizzare un’opera d’arte visiva con i nuovi mezzi messi a disposizione dalla tecnologia dei computer, e il crearla invece con strumenti più tradizionali?

EC: Mi è stato dato pieno accesso alla tecnologia piuttosto avanzata di uno studio grafico tra i più dinamici in questo momento; ho avuto a disposizione un tecnico specializzato che mi ha insegnato a usare un computer fornito dei principali programmi di grafica e elaborazione delle immagini. La cosa più difficile non è stata “pensare” un’immagine da realizzare attraverso l’elaborazione del computer, ma abituarsi all’uso manuale del mouse. Si può dire che sia stato come imparare nuovamente non solo a disegnare ma addirittura a scrivere, ad articolare i movimenti muscolari di braccio, mano e dita in modo consono. Questo nuovo apprendimento, questo training, è stato un processo non veloce, che ha richiesto impegno e attenzione ai dettagli, ai movimenti millimetrici, quindi vedi come se c’entra l’uso della mano non sia estranea, anzi sia piuttosto fondamentale, una componente artigianale, tradizionale.     

PM: Tu ritieni che le immagini che hai creato per Maestrale siano da considerarsi tue opere d’arte a tutti gli effetti, oppure vanno viste come una sorta di esperienza nel campo di un’arte “minore”, di un’arte applicata, in questo caso alla scenografia televisiva?

EC: Sono i miei primi passi sperimentali all’interno di un mezzo tecnologico che offre grandi possibilità espressive che mi interessa approfondire in futuro. D’altra parte, penso che la tecnologia digitale sia destinata a progredire molto velocemente per cui è assai probabile che i risultati finora ottenuti vengano visti, tra qualche anno o addirittura qualche mese, come rudimentali e visivamente poveri. Quando si parla della tecnologia, da sempre è importante inquadrare i risultati nell’epoca in cui la tecnologia viene usata; in ogni caso, ciò che conta riguardo al lavoro di un artista è il processo mentale e non il “filtro” del mezzo, sia questo tecnologico che artigianale. Voglio dire che tra qualche anno potrei anche ricaricare sul computer le immagini create oggi e rielaborarle attraverso mezzi digitali più sofisticati: il risultato visivo sarebbe forse più efficace, ma è l’idea che in primis deve reggere nel tempo. Allora, è qui che crolla la divisione tra arte applicata e arte vera e propria, sia perché, visti i rapidi sviluppi del computer che si prevedono, ancora non si può parlare di “stato dell’arte” del mezzo tecnologico utilizzato, e sia perché nemmeno possiamo immaginare appieno l’impatto, la “presa”, l’infiltrazione e il condizionamento che le immagini create al computer avranno all’interno della società. Quello che ti posso dire è che se le mie immagini vengono utilizzate ora come “scenografie” per interviste televisive, chiaramente la mia esperienza visiva viene applicata a un qualcosa o un qualcuno che deve essere protagonista della scena, ma se io in un secondo momento stampo su supporto cartaceo o su pvc le stesse immagini, magari in grandi dimensioni, e le porto in mostra allora senza dubbio il lavoro entra a tutti gli effetti nel campo dell’arte contemporanea: è qui che bisogna vedere se ciò che viene proposto è stato consunto dal tempo, già storicamente esaurito da esperienze precedenti, o ha qualcosa di inedito e personale da dire. Inoltre, a quel punto io dovrò occuparmi di infiniti dettagli pratici come la qualità della stampa, la finezza e compattezza della grana delle riproduzioni, la giusta dimensione e la confezione delle stampe, riprodotte “a filo” o non “a filo”, con o senza cornice, appese alla parete o magari sospese al soffitto, eccetera. Vedi come il discorso si complichi… Alla fine, come sempre, non sarà l’artista a decidere cos’è “arte”; sarebbe troppo bello se fosse così. Il mio unico compito è essere aperto alle nuove possibilità senza pregiudizi. Esattamente come nella vita.    

PM: Tu sei un artista abituato a spaziare tra i generi, come si è anche visto di recente con i tuoi lavori in campo cinematografico. Io stessa sono stata testimone, come programmista e regista alla RAI, di una tua performance come attore radiofonico nel 1981, molto esuberante e fuori dagli schemi recitativi classici. Come riesci a padroneggiare tecniche espressive e tecnologie così diverse?

EC: Ma, sai, sono fortunato a trovare sempre nuovi finanziatori. Mi accorgo che attorno a me c’è una nuova generazione di trenta-quarantenni pronta a vivere questi anni Ottanta nel pieno dei fermenti che stanno accadendo, e soprattutto a investirci dei soldi. Investire sui giovani che sembrano “avere il polso” della situazione della creatività contemporanea; anche le mie performance attoriali in radio dell’81 sono nate da questo: dall’affidare l’interpretazione di un testo teatrale a un artista di solo diciotto anni che, pur non essendo un attore professionista, in qualche modo sembrava forse incarnare i fermenti dell’oggi. Allora, quando come artista fai parte non semplicemente di una “tendenza artistica”, con tutti i suoi limiti, ma di una più ampia situazione di fermento creativo e di energie confluenti verso precisi obbiettivi, hai anche la possibilità di riunire attorno a te un team di persone a cui appoggiarti per conseguire tali obbiettivi assieme a loro. Ecco come “si padroneggiano”, se così si può dire, varie situazioni espressive e tecnologiche: con l’aiuto degli altri. I film non potevano che nascere così, perché è fondamentale il contributo, spesso gratuito e basato sulla passione e su divertimento, di attori e tecnici. Il primo passo è uscire dall’individualità dell’artista, che è la cosa più difficile da fare perché molti di noi scelgono ancora di fare l’artista per enfiare a dismisura il proprio ego e la propria personalità.   

Enrico Corte
Film stills from Musica, 1986. 16mm, 27 min.

PM: Dopo una lunga serie di mostre nella tua città natale, iniziata circa nel 1980-1981, da qualche tempo stai privilegiando il rapporto con situazioni culturali e espositive fuori dalla Sardegna. Raccontaci qualcosa di queste tue esperienze nell’arte a livello nazionale.

EC: Ho sempre viaggiato nei luoghi dell’arte, fin da bambino. Non vengo da una famiglia di intellettuali o artisti, ma in qualche modo l’arte e la cultura sono sempre state viste con profondo rispetto. Questo mi ha portato in giro per l’Italia a visitare i più importanti musei d’arte antica e moderna già da piccolo, in compagnia di mio padre. La mobilità fa parte della mia formazione di vita, laddove quegli elementi che invece costituiscono “l’insularità” ho imparato a vederli come limiti e ostacoli al movimento, più che come valori tradizionali da proteggere. La stessa idea di “mare”, proprio intesa come luogo piacevole di frequentazione vacanziera, mi è piuttosto estranea: per me il mare è una barriera da superare, una barriera molto “impegnativa” da quel punto di vista, e stare fermo a prendere il sole sulla sua riva mi sembra solo una perdita di tempo. Non è che “non so godermi la vita”: è che ho altro di meglio da fare. Anzi guarda, te lo devo proprio dire: a me tutte queste vedute, questi paesaggi con vista sul mare sardo, sulle rocce delle scogliere con le loro forme suggestive, magari col sole al tramonto, danno solo un profondo fastidio. Non credo che ci sia nulla di unico nei paesaggi, nelle tradizioni, nell’archeologia, nella finezza e nel colore della sabbia delle spiagge sarde: tutte cose bellissime ma puoi trovarne di altrettanto belle, se non di più, in altre parti del mondo. Lo capisci solo viaggiando, ovvio; come anche impari a vedere nella loro relatività, e quindi fare a meno, di abitudini, alimenti, certezze che ti hanno accompagnato dalla nascita ma che non ti servono in altre parti del mondo. Relativizzare le certezze: crescere significa anche questo, giusto? Forse non sarà vero per tutti, ma di sicuro lo è per un artista. La storia dell’umanità è sempre andata avanti dalla dialettica tra due pulsioni: la conservazione dei valori tradizionali, ottenuta spesso attraverso la coscienza della propria storia e quindi la radicazione nel territorio d’origine, e la spinta verso l’innovazione, perseguita attraverso l’incoscienza, il perdersi tra le strade del mondo. Ognuno deve seguire le proprie attitudini, non sempre si può tenere il piede in due staffe.

PM: Mi sembra che tu faccia una contrapposizione molto forte e netta tra le due cose, le due “pulsioni”, questo bipolarismo conservazione-innovazione…

EC: Probabilmente sì. Anche perché, se parliamo di “valori tradizionali”, non possiamo che constatare come questi ruotino attorno a organizzazioni sociali come la famiglia, il clan, e come queste siano strutture prettamente maschiliste anche in società erroneamente considerate matriarcali come quella sarda arcaica, e su questo, Piera, tu che vieni da una formazione femminista non puoi che essere d’accordo, credo. La famiglia patriarcale è ciò che regola la vita persino in società che qualcuno chiama matriarcali ma, come è stato dimostrato da studiose più autorevoli di me, tuttalpiù si potrebbero definire matrilineari, e in cui comunque il ruolo del maschio resta centrale. Insomma, stiamo parlando di tutto ciò che intendiamo superare, no? Io più che superare intendo distruggere, e a colpi di bazooka: non vado molto per il sottile…

PM: Eppure ci sono artisti che cercano di interpretare il retaggio e la ricchezza delle tradizioni popolari in chiave contemporanea, rivitalizzandone i contenuti.

EC: Forse, anzi sicuramente nel campo della musica. Oggi si parla di World music, e molti musicisti mettono in pratica una strategia simile a quella che dici tu, anche se purtroppo spesso si sconfina nella New age, occorre dire… Quello che posso aggiungere a proposito dell’arte è un po’ un ripetere le cose che io e te abbiamo detto tra di noi qualche giorno fa a proposito di una artista contemporanea che oggi rielabora le tradizioni femminili del cucito, o del fare il pane, o altre pratiche quotidiane o artigianali riservate per consuetudine alle donne sarde: senza togliere nulla ai meriti di tali esiti artistici, mi sembra che l’intera operazione, donando dignità estetica in campo contemporaneo al ruolo tradizionale della donna in Sardegna, al tempo stesso lo consolidi; non contesti, quindi, ma consolidi il fatto che la donna fosse relegata in cucina e fuori dalla sfera politica e pubblica, scivolando anche qui in una sorta di New age conciliante, priva di tensioni, quasi favolistica, invece di rimettere in discussione anche drastica, anche radicale e violenta, questo ruolo – come invece io ritengo sia giusto che oggi si faccia. Allora, il nucleo del problema a questo punto non sono più i singoli risultati estetici – sui quali, come ho detto prima, non discuto – ma il fatto che un atteggiamento conciliante sul piano dei ruoli sociali precostituiti è di sicuro più accettabile per il sistema maschiocentrico dell’arte, e quindi un’artista donna che si proponga come leggiadra “ricamatrice” venga approvata senza problemi; anzi, il maschio si ripulisce la coscienza perché può dire: vedi? le donne non sono escluse dall’arte, purché siano donne-donne, con tutti gli attributi giusti del “donnismo convenzionale”.

PM: C’è però un’immensa ricchezza delle tradizioni popolari sarde che l’arte contemporanea può e deve prendere in considerazione.

EC: Non ne faccio un problema di tradizioni sarde, ma di cambio di prospettiva generale. Se saliamo più a nord, zona Torino, ad esempio, possiamo trovare la artista moglie del celebre pittore-scultore, la quale, mentre il marito gira il mondo, se ne sta in cucina a guardare crescere la figlia e nel frattempo lavora a maglia con il rame… il risultato è sicuramente eccellente, molto poetico, elegiaco, però anche nel nord evoluto questa elegia è una riconferma degli spazi ristretti, delle pratiche specifiche e dei ruoli classici femminili, laddove invece è il concetto di binarismo maschile-femminile che va abbattuto… In Italia ancora si aspetta la rivalutazione di una artista grandiosa come Claude Cahun, tanto per far capire quale sia il mio riferimento di artista “donna”: una che sessant’anni fa ha distrutto tutti i ruoli imposti dal suo tempo, che ha sfidato il nazismo, che ha pagato un caro prezzo per tutto questo… e qui nessuno la conosce e non ha “mercato”, nonostante abbia prodotto opere stellari.

PM: Su questo tuo punto di vista potremmo discutere a lungo… Di sicuro da quando ti conosco mi è sembrato evidente che tu stia dalla parte della pulsione rivolta verso l’innovazione e anche, come dici tu, verso l’incoscienza! Ma che mi dici di quello che tu chiami “perdersi tra le strade del mondo”, almeno a livello delle strade di questa nostra Italia di oggi?

EC: Lo sguardo sull’Italia che ho avuto modo di approfondire in questi ultimi anni non ha prodotto certezze di interpretazione, di lettura assolutistica delle cose, che è come dire che non ho la “verità in tasca” su niente, e non voglio averla. Posso solo dirti che tra tutti gli ambienti artistici italiani ora come ora trovo il giusto fermento a Napoli e a Roma. Di Napoli potrei pensare che forse è la città più cosmopolita d’Italia in questo momento, l’unico luogo che per molti aspetti potrebbe essere paragonato a New York, per il turbinio urbano che in qualche modo riesce a funzionare grazie a una innata creatività popolare che tutto ricicla e tutto trasforma, incluso il caos; per il melange etnico radicato nel tessuto sociale in cui si amalgamano religiosità tradizionale e sopravvivenza di credenze pagane; per la sensualità sfacciata e libera da inibizioni di un popolo che include e accetta nelle sue tradizioni secolari persino le “trasgressioni” come le figure dei femminielli; per l’impalpabile ma ben presente elemento malavitoso spesso vissuto “con filosofia”; per l’ambiente culturale che possiede l’attitudine di abbattere le barriere tra i generi e in cui brilla il lavoro di due o tre galleristi di genio, diversi gruppi musicali, un pugno di registi cinematografici e almeno un paio di gruppi teatrali di forte spicco a livello europeo. So che ciò che dico su Napoli può anche suonare come una serie di luoghi comuni, ma il fatto è che il capoluogo partenopeo nel suo insieme brilla nel confronto con, ad esempio, una città molto più piccola e provinciale, eppure più pretenziosa, come Milano, vera capitale immorale della mafia e dell’analfabetismo di ritorno, è ciò si vede nella presa che nel tessuto cittadino hanno elementi di credulità popolare come le attività di “maghi”, indovini e roba simile, oppure il crescente dilagare di un fenomeno politico come la Lega lombarda.

PM: E che mi dici di Roma, in cui proprio adesso, alla Quadriennale, sono esposte una serie di tue opere?

EC: Alla Quadriennale, al Palazzo dei Congressi dell’Eur, sono in mostra quattro miei quadri a doppia faccia. Le opere sono collocate lungo un corridoio, e stanno proprio al centro del corridoio perché sono sospese in mezzo allo spazio tramite cavi d’acciaio agganciati alle pareti sinistra e destra. Chi conosce gli spazi del Palazzo dei Congressi sa che i locali sono molto suggestivi perché ampi e rivestiti di marmo, quindi questo corridoio mi consentiva di espandermi in un bello spazio neutro, quasi glaciale, con l’installazione di quattro opere di grandi dimensioni, senza peraltro compromettere il passaggio del pubblico lungo il corridoio stesso. Ovviamente, trattandosi di quadri a doppia faccia, a seconda che il visitatore imboccasse un lato o l’altro del corridoio la prospettiva sulle opere cambiava, perché si poteva vedere prima una fila di lati e poi, avanzando lungo il corridoio, i lati retrostanti. E su Roma, mah, in generale su Roma posso dirti che non è possibile paragonarla ad altre capitali mondiali dell’arte, ma è il luogo con la più alta popolazione in Italia di artisti e artiste contemporanee di grande valore, estremamente diversi tra loro e spesso in conflitto, ma è questo l’aspetto interessante. Che poi questi artisti siano per la grande maggioranza di origine non romana, ma vengano da zone anche remote e sperdute delle Marche, Emilia-Romagna, Piemonte, Toscana, Abruzzo, Campania, Umbria, Puglia, Grecia, Canada, eccetera… è un altro discorso: può significare che la città è un’enorme spazio scenografico che tutto accoglie ma che non produce dall’interno, che ci sono poche spinte immaginative e dinamiche creative avanzate nel suo nucleo sociale autoctono. È così anche per il cinema, ad esempio, visto che Roma è considerata la capitale del cinema: i più grandi registi e attori che vi operano non sono romani. Ma il discorso è valido per molti campi: teatro, fumetto… Ad ogni modo, nelle mie trasferte romane degli ultimi anni ho avuto modo di conoscere molti tra quegli artisti e artiste che hanno fatto parte della mia formazione, a partire dai libri e riviste d’arte o di fumetti in cui da ragazzino vedevo riprodotti i loro lavori. Alcuni di loro li ho incontrati nelle occasioni in cui io stesso ho avuto modo di esporre in città, ma gli artisti a Roma li si incontra soprattutto durante la notte; a volte nei luoghi dell’intrattenimento e della ristorazione, che spesso sono la stessa cosa, come possono essere gli storici e più “formali” bar Rosati e Babington’s, o i più recenti e modaioli Hemingway pub e Caffè della Pace, o il nuovo, alternativo e polifunzionale Circolo degli Artisti, ma li incontri anche in giro nei labirintici vicoli del centro, come fossero alla ricerca di qualcosa d’ineffabile, di un brandello di mistero della Storia perso tra i ciottoli del selciato che possa fungere da nuova ispirazione per un quadro. Sì, gli incontri casuali nei luoghi più impensati sono stati di sicuro i più interessanti, ma è anche giusto andare a cercare gli artisti nei loro studi, semplicemente procurandosi l’indirizzo e suonando al campanello. Di solito se sei un giovane sei sempre ben accolto, anche se capiti in studio proprio nel mezzo dell’esecuzione del lavoro. Io sono sempre stato trattato con rispetto, e c’è sempre stato un interscambio di esperienze e informazioni basato su un rapporto di parità. Oggi mi sento di dirti questo, domani potrei fare affermazioni differenti: la verità è una chimera che non ho la presunzione di afferrare per i capelli.

PM: Grazie Enrico Corte per il tuo contributo artistico per Maestrale e per i tuoi interessanti racconti sulle tue esperienze di arte e di vita. Abbiamo iniziato a parlare di arte al computer e siamo finiti… molto lontano!

EC: Grazie a voi! Dobbiamo sempre ritrovarci lontano – soprattutto da noi stessi.

Enrico Corte
Bittersweet Portrait, 1981. Silver gelatin print. 104 x 150 cm; 41 x 59 inches.